martedì 4 giugno 2019

La Strada che porta alla Realtà

 

 

1° capitolo di un saggio ipotetico


La scomparsa della logica



      L'Ombra dei Controllori
Io non credo che la complessità dei “punti di risveglio” abbia da subito percepito la realtà intorno ad essa in termini materiali (elementi e composti), né che abbia inteso la percezione della stessa in termini di segnali elettrici, né tanto meno che abbia riconosciuto sé stessa in termini di neuroni e sinapsi. In un momento successivo al risveglio alcuni dei “punti” devono aver cercato di mettere il guinzaglio a tutti gli altri per favorire un ritorno all’unità. Così è stato impresso uno schema a una profondità tale dell’intelletto da risultare difficilmente individuabile e ancora meno estirpabile. Per mezzo dello “schema” i “punti di risveglio” sono stati ancorati a una percezione fisica del mondo, quella che abbiamo appena descritto. Lo stesso schema consentirebbe loro di percepire un singolo piano nell’infinita varietà dell’Universo, fatta eccezione forse nei momenti successivi alla morte.[1]

Non è inverosimile che intuizione e meditazione possano condurre all’individuazione dello “schema”. Dopodiché una sua modifica potrebbe consentire l’evasione da una legge fisica, come ad esempio la gravità, permettendo all’“illuminato” di levitare. Consentirebbe di comunicare o muovere oggetti a distanza (l’idea stessa di distanza è in fondo una conseguenza dello “schema”). Oppure potrebbe togliere la necessità del corpo di prendere cibo, o impedirne le malattie e il decadimento. D’altro canto una modifica sbagliata potrebbe comprometterne l’integrità, il funzionamento e/o la sopravvivenza. Impossibile immaginare cosa significhi la rimozione completa dello “schema”, se sia possibile per il “punto di risveglio” assumere il pieno controllo di sé stesso in quello stato libero dopo eoni di prigionia. Mi chiedo poi se esistano altri “schemi” corrispondenti ad altri piani. O se si possano adottare più “schemi” riuscendo a passare coscientemente da uno all’altro.


[1] In «Signori di Volontà e Potere» l’esoterista Daniele Mansuino sostiene che questo schema corrisponde in qualche modo all’albero qliphotico (strutturalmente identico al più noto albero sephirotico). D’altro canto, gli ultimi 80 anni di ricerca nella fisica delle particelle suggeriscono che tutte le interazioni tra le stesse siano sintetizzabili per mezzo di un diagramma (detto di Dynkin, dal matematico che per primo ne introdusse il tipo) il quale assomiglia per certi versi agli alberi suddetti.

 
Realtà simulata

Da quanto detto si ricava l’idea di un universo-computer, dove lo “schema” è un linguaggio di programmazione che regola il rapporto reciproco tra i programmi-“punti di risveglio” e tra i programmi e l’ambiente in cui si muovono, corrispondente quest’ultimo al sistema operativo. A tal proposito Federico Pistono, mi illustrò una volta un teorema matematico formulato dal filosofo Nick Bostrom della Oxford University.

Bostrom è meglio noto per i suoi lavori sul cosiddetto rischio esistenziale
[1] e il principio antropico[2]. Ha conseguito un dottorato di ricerca alla London School of Economics ed attualmente è direttore del Future of Humanity Institute presso l’Università di Oxford. E’ apparso frequentemente sui media internazionali occupandosi di transumanesimo e di argomenti correlati quali la clonazione, l’intelligenza artificiale, il trasferimento della coscienza su supporti tecnologici e la realtà simulata.

Il teorema di Bostrom afferma che almeno una delle seguenti affermazioni è probabilmente vera:
  1. Nessuna civiltà raggiungerà mai un livello di maturità tecnologica in grado di creare realtà simulate.
  2. Nessuna civiltà che abbia raggiunto uno status tecnologico sufficientemente avanzato produrrà una realtà simulata pur potendolo fare, per una qualsiasi ragione, come l'uso della potenza di calcolo per compiti diversi dalla simulazione virtuale, oppure per considerazioni di ordine etico, ritenendo ad esempio immorale l'utilizzo di soggetti tenuti “prigionieri” all'interno di realtà simulate ecc.
  3. Tutti i soggetti con il nostro genere di esperienze stanno vivendo all'interno di una simulazione in atto.

In altre parole, qualora una civiltà riuscisse a costruire una versione replicata di sé stessa in realtà virtuale, ciò indicherebbe che la sua stessa realtà è probabilmente virtuale.

Credo che i fratelli Wachowski avessero in mente questo quando nel secondo film di MatriX consentirono all’agente Smith – un programma – di uscire dalla sua realtà simulata per entrare nella mente di un abitante di Zion. E ancora alla fine del terzo film, quando Neo, che ha già imparato ad influenzare MatriX, riesce ad usare gli stessi poteri nel mondo esterno. L’idea era già stata presa da Josef Rusnak ne «Il Tredicesimo Piano», i cui protagonisti costruiscono una realtà simulata e subito dopo si rendono conto che loro stessi sono gli abitanti di un mondo virtuale.

La questione è stata affrontata da Rich Terrile, direttore del Centro per il calcolo evolutivo e Design automatico presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. Terrile è convinto che entro dieci anni i computer disporranno del potenziale necessario a calcolare un’intera vita umana, fatto che renderebbe possibile la creazione di una simulazione del nostro mondo.


[1] Il “rischio esistenziale” definisce la probabilità per la quale un evento o una serie di eventi potrebbero annientare radicalmente o limitare drasticamente le potenzialità della vita intelligente sul pianeta Terra.
[2] Il principio antropico afferma che l’universo possiede determinate caratteristiche osservabili per il semplice motivo che tali caratteristiche sono propedeutiche allo sviluppo di creature intelligenti in grado di compiere suddette osservazioni.

Prima o dopo succede a chiunque possieda un minimo d’intelligenza. Magari soltanto per un istante, l’Homo Dormiens viene sorpreso da una sorta di illuminazione: tutto quanto lo circonda, continuato ad esser letto con la chiave del pensiero dominante, gli appare d’un tratto privo di senso.

Riavvolgiamo il nastro. All’improvviso siamo diventati consapevoli di esistere. Non sappiamo dire quando è stata la prima volta… i primi ricordi risalgono ai tre o quattro anni di vita. Ma anche prima abbiamo forse coscientemente centrato il vasino o abbiamo forse coscientemente inseguito il cane a gattoni.
Per un poco abbiamo pensato unicamente a giocare, magari i più fortunati l’hanno fatto in mezzo alla sabbia sporcandosi come porci e per dieci anni hanno avuto le ginocchia costantemente sbucciate.

Prima ci sono stati la mamma o il papà, poi gli amichetti, e a un certo punto ci siamo trovati con un corpo che cresceva e l’attenzione monopolizzata da nuove forme che non avevano a che fare con giocattoli o biciclette. Abbiamo iniziato a fare scelte stupide, a metterci in mostra, a competere come cervi in amore, e nonostante tutto abbiamo gioito più di quello che per tutte le cose serie a seguire.

Negli anni della scuola, tra un’evasione e uno scappellotto abbiamo iniziato ad accettare le prime responsabilità, ma avevamo abbastanza tempo libero per frequentare una band(a) e passare più di due giorni consecutivi giocando a calcio e limonando nei prati. Col lavoro il tempo è diminuito, e i genitori hanno smesso di sostenerci con la paghetta. Inizialmente abbiamo provato piacere a tirar su qualche migliaio di euro per la macchina, il computer o un weekend a Parigi. Ma alla fine siamo rimasti incastrati. La vita ridotta a due settimi, e un sacco di carte bollate con la nostra firma in fondo che ci impegna a sganciare la grana costantemente, con la clausola che chi non paga va a finire sulla strada. E il sistema ci ha resi dipendenti, da qualche aggeggio elettronico o da un modo di vestire o da un minimo di metri quadri di proprietà, perché al di sotto di quel limite il giudizio nostro e degli altri (che sono lo stesso giudizio) ci classifica reietti.
Al lavoro ci viene detto che l’importante è eseguire gli ordini e la voce del padrone ci rimbomba nella testa col suo “ricordati che qui non devi pensare”. A quarant’anni abbiamo perso l’immaginazione, il nostro partner è diventato una nota a margine nella pagina della ruotine e tutto quanto riusciamo a fare, sfiniti, è adagiarci sul divano a guardare le facce beone di uomini che come noi non fanno altro che ripetere sempre le solite cose. La curiosità si affievolisce per mancanza di forze che possano sfamarla, e lentamente diventiamo gusci vuoti, stanze vuote, buie e inutili.
Il sistema usa i suoi ripetitori per piantare l’idea che una corsa in tondo ad esaurimento sia una moda necessaria quanto inevitabile. Dopo un tot di volte la menzogna ripetuta viene eletta a verità. Ma la “vera verità” rimane, ed è che il mondo del lavoro è come una vasca da bagno che si sta riempiendo. Più aumenta il flusso del rubinetto (la tecnologia) e più rapidamente si produce ricchezza. In altri termini, serve meno tempo (di lavoro) per riempire la vasca (ovvero tutta la ricchezza che ci serve, compresi svaghi e amenità). Purtroppo, un demone chiamato “sistema” continua man mano ad allargare il buco di scarico (flusso di ricchezza alle banche col sistema dei titoli di stato), mentre i suoi scagnozzi svuotano la vasca a secchiate dall’alto (obsolescenza programmata, bisogni indotti, alimenti buttati a migliaia di tonnellate per alzare i prezzi). Così si garantisce che l’orario minimo di lavoro per la sopravvivenza sia maggiore o uguale alle 8 ore, di modo che nessuno abbia tempo per pensare[1].
Piano piano ci afflosciamo su noi stessi, imparando a tornire con il sacchetto delle urine appoggiato sulla coscia. E quando finalmente il sistema ne ha avuto abbastanza, ci rendiamo conto che lasciarci andare non è stata una ricompensa, ma piuttosto lo sbarazzarsi di una mucca che non dà più latte. Con il corpo spento dovremmo fruire della nostra saggezza e gioire nel vedere figli e nipoti che si accalcano alle nostre ginocchia per chiedere consigli. Dovremmo averne da elargire fino a che l’ultimo bagliore di vita non si spenga. E invece non abbiamo niente, siamo solo corpi incontinenti dall’aspetto sgradevole che si lamentano di tutto solo perché quel tutto non possiamo più farlo. E i nostri figli e nipoti sono disposti ad aggiungere un’altra carta bollata per liberarsi di noi e nasconderci alla loro vista, perché la vita è già abbastanza complicata con il mutuo e l’ADSL lenta, e allora è meglio buttare ciò che non serve. Poi una cassetta di legno, qualche frase fatta e un pezzo di marmo e la storia è finita.
Si può avere di meglio di questa storia terribile. E ancora più terribile è constatare che in tutto questo non vi sia il minimo spazio per prepararci alla morte o alla malattia, che per tutto il tempo vengono ignorate. Pensate davvero che se fossimo consci di morire passeremmo tutto quel tempo a fare cose che non ci piacciono? Nessuno crede di dover morire, perché appena lo sfiora l’idea della morte lui fugge, e fa bene, perché non avrebbe tempo di portare quel pensiero a qualche traguardo e resterebbe alla fine solamente con un sacco d’ansia. Similmente la malattia, perché sono gli altri quelli che si ammalano. Mangiamo merda, respiriamo merda, siamo attraversati da onde di merda ma il tumore se lo beccano gli altri. E quando ci accorgiamo di aver sbagliato i conti è troppo tardi per cercare di capire. Dobbiamo allora affidarci al medico come se fosse un dio, e non possiamo sapere se sia competente o meno, o se sia stato plagiato da un’educazione sovvenzionata dai poteri forti. Del resto è normale che chi non vive la vita non sappia nulla del suo fine e del suo termine.

Io credo che così non abbia senso, ma ciò non significa che la vita in generale non abbia senso. Credo che il sistema ci abbia manipolati così che accettassimo pacificamente di abitare in prigioni dorate. Il sistema ha un motivo preciso per non farci pensare, e lo snoderemo nel testo, e per riuscire in tutto questo ha fatto perno su un concetto che è sinonimo di civiltà: la paura. La civiltà nasce dalla paura: uomini deboli ma intelligenti scoprirono che potevano sfuggire alla legge della giungla intrappolando i propri simili in una rete di regole che avrebbe impedito loro di ferirli. Oggi la paura è il lucchetto della nostra gabbia. Se non fuggiamo, se non andiamo a vivere come primitivi in mezzo alla foresta, è perché temiamo di non farcela, perché se ci rompiamo un braccio non c’è l’ortopedia, se ci morde un ragno potremmo morire avvelenati, se non siamo agili potremmo non riuscire a procurarci il cibo. E non voglio parlare di quelli che si sentono umiliati nel non vestire adeguatamente o nel non lavarsi quotidianamente, quelli patiti dei selfies o del calcio parlato, o quelli che credono nella politica. Per loro non ho niente da dire.
In una vita meno “civile”, più sana, avremmo tempo di pensare. E pensando potremmo magari comprendere quale sia lo scopo della nostra esistenza. Chiaramente non riuscirò a portare né me né voi a questa risposta, ma credo di aiutare entrambi a fare il primo passo. Sono convinto che per capire il ruolo dell’Uomo nell’Universo bisogni prima capire cosa sia l’Universo, e soprattutto dove finisca l’Uomo e dove cominci l’Universo. E per universo intendo tutto ciò che esiste, che sia esso materiale o spirituale, ammesso che tale distinzione abbia un senso.

Quello che segue vuole essere un saggio di ampio respiro sulla realtà dell’universo, così come l’ho imparata sugli scritti di filosofi ed esoteristi, sui testi universitari di fisica, dai calcoli che mi hanno portato all’Arrangement Field Theory e soprattutto dalle esperienze di vita, sia puramente umano-sociali che sconfinanti nello straordinario.

Nella realtà che mi sono figurato non esiste una netta distinzione tra fenomeni spirituali e materiali. Molto semplicemente, materiale è ciò che rispetta una convinzione radicata, condivisa da un numero sufficientemente alto di individui; spirituale è ciò che la evade. Ho usato la parola “radicata” perché le convinzioni più forti, che chiamiamo “leggi fisiche”, oltre ai banali aspetti coscienti (se salto dalla finestra sono convinto di precipitare), debbono averne altri di inconsci, tali da riprodurre lo schema fenomenico descritto dalla fisica moderna (il cosiddetto Modello Standard). Del resto già nel 1927 l’esperimento della doppia fenditura di Davisson e Germer (di cui parleremo) dimostrò senza dubbio che l’universo materiale non potrebbe esistere senza un soggetto che lo osservi.
A tal proposito il pensiero esoterico occidentale contempla una sorta di “effetto calamita”, per cui le convinzioni già insinuate in molti individui riuscirebbero ad attrarne altri per entrare pure in loro. In gergo esoterico è l’ancoraggio delle coscienze ad un dato mondo di sogno. In un certo senso, la fisica e le sue limitazioni non sarebbero altro che una malattia dell’anima, un batterio che si muove rapidamente da un’anima all’altra; e tanti più sono i contagiati, tanto più rapidamente si avvicina il contagio dei restanti.

Mostreremo come si possa giungere alle stesse conclusioni percorrendo due strade apparentemente inconciliabili, ovvero la scienza, con gli esperimenti e le leggi da essi desunte e ampliate sulla base di principi di simmetria, e la filosofia unita all’esoterismo, con le sue speculazioni libere e le intuizioni spronate da sensazioni ai margini dei 5 sensi.

Questo libro vuole infine mostrare l’esistenza di un interesse da parte di un gruppo ristretto di uomini – che immotivatamente si sentono i migliori – a mantenere una diffusa ignoranza su cosa sia in effetti la “realtà”, sfruttandola opportunamente per tenere soggiogati tutti gli altri.
Ho deciso di scriverlo quando mi sono reso conto che alcuni dei dati in mio possesso erano inediti o comunque pochissimo noti, e che con quei dati sarebbe stato possibile unire tutti gli altri per arrivare a conclusioni altrimenti ingiustificate.


[1] Per dettagli cercate la pagina intitolata “Economia Malata”.


 
Cos'è la Realtà?

Neo: Questo non è reale?
Morpheus: Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello. Questo è il mondo che tu conosci. Il mondo com'era alla fine del XX secolo. E che ora esiste solo in quanto parte di una neuro-simulazione interattiva che noi chiamiamo Matrix. Sei vissuto in un mondo fittizio, Neo.

Questo dialogo tra Neo e Morpheus, nel genialissimo primo film di MatriX, sintetizza in poche righe le conquiste di un percorso filosofico iniziato nel V secolo a.C. e concluso al principio del XIX secolo.

A darne il via furono alcuni pensatori greci che approfittarono della lunga pace successiva alle guerre persiane[1] per elaborare e diffondere le proprie riflessioni. Furono cinquant’anni senza armi e devastazioni (la cosiddetta Pentecontaetia) un intervallo sorprendentemente lungo per l’epoca antica. Che piaccia o meno, allora come oggi, per snodare i temi profondi servivano tempo e tranquillità.

Il nuovo clima di pace consentì ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali e varcando talvolta i confini dell’Ellade. Mentre le poleis si abbellivano (ad Atene il governo di Pericle fece costruire i maggiori edifici dell’Acropoli: Propilei, Partenone, Eretteo, Statua d'oro di Atena) i valori tradizionali entravano in crisi proprio per effetto della sofistica, “espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà”[2].

I sofisti sostenevano che ogni conoscenza fosse “sensibile”, cioè derivante dai sensi e pertanto soggettiva, mutevole e non universale. In altri termini, spiega il prof. Fabrizio Coppola, «non si può dire nulla di certo e di assoluto: non esiste una verità universale riconoscibile da tutti, ma ognuno può esprimere una propria verità personale, che può essere messa in dubbio dagli altri. Ogni conoscenza è soggettiva e relativa. Ovviamente in tale visione anche i valori morali vengono considerati relativi e privi di validità.»[3]

Applicando il concetto ai gruppi sociali, i sofisti maturarono un sostanziale relativismo etico che riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze del posto. In mancanza di valori universali, essi adeguavano i propri insegnamenti alle convenzioni riconosciute valide dai cittadini in ascolto, ammettendo per ogni convenzione un uguale diritto ad esistere. Così il dominio di una convenzione sull’altra veniva determinato unicamente dall’abilità retorica del suo promulgatore.

Dovendo passare per il filtro soggettivo dei sensi, la realtà oggettiva non può pertanto venire conosciuta. Secondo Protagora (486-411 a.C.) «ciascun uomo è misura di tutte le cose»; Gorgia (485-375 a.C.) va oltre e ammette che tale realtà oggettiva potrebbe anche non esistere.

Credo di poter chiarire la questione con un esempio che ho fatto talvolta agli amici. Prendiamo una ciliegia matura e un ciuffo di erba fresca. Da bambini ci hanno insegnato a chiamare “rosso” il colore della prima e “verde” il colore della seconda. Così per tutta la vita abbiamo detto rosso tutto ciò che aveva il colore della ciliegia e abbiamo detto verde quanto aveva invece il colore dell’erba. Ma è solo un modo come un altro per dire che alcune cose (es. pomodori maturi, tramonti, sangue) hanno il colore della ciliegia (sfumature a parte ovviamente), mentre altre (es. peperoni crudi, foglie, l’incredibile Hulk) hanno il colore dell’erba. Ma niente assicura che due persone vedano i due colori allo stesso modo. Uno potrebbe vedere il rosso come l’altro vede il verde, e ciononostante, perché così è stato insegnato ad entrambi da neonati, continueranno entrambi a chiamare “rosso” il colore della ciliegia e “verde” il colore dell’erba. E similmente continueranno a chiamare “rosse” tutte le cose del colore della ciliegia e “verde” tutte le cose del colore dell’erba. E non c’è alcun modo per verificare se le due persone vedono i colori allo stesso modo. Esempi analoghi si potrebbero fare con suoni e sapori.

Questo probabilmente è quanto intendeva Protagora: anche ammettendo che tutti i soggetti ricevano gli stessi segnali, non è affatto ovvio che essi li interpretino allo stesso modo. Gorgia contempla in più l’eventualità che nemmeno i segnali siano gli stessi, ovvero che ciascun soggetto riceva segnali provenienti da una realtà diversa, con molti, pochi o nessun punto di contatto con la realtà degli altri.

Ciò apre le porte a due possibilità alternative: la prima è che ogni coscienza inventi una realtà a lei funzionale; la seconda è che esistano molte realtà che convivono una sull’altra, e che ogni coscienza possa sintonizzarsi sull’una o l’altra realtà come se fossero stazioni radio. E come le stazioni, anche le realtà potrebbero interferire l’una con l’altra se le frequenze fossero abbastanza vicine.

Nell’ipotesi contemplata da Gorgia, nell’eventualità che due soggetti si trovassero concordi nel descrivere le stesse sensazioni, si dovrebbe trarre l’una o l’altra di tre conclusioni: 
1) i due soggetti sono sintonizzati sulla stessa realtà o comunque su realtà a frequenze ravvicinate. E’ quanto accade in MatriX, dove tutti i soggetti sono connessi alla stessa realtà costruita dall’“Architetto”; 
2) uno dei due soggetti esiste solo nella mente dell’altro; 
3) la coscienza è unica e i vari soggetti nell’universo sono soltanto punti di vista limitati da cui la coscienza osserva sé stessa.

L’ultimo caso dev’essere preso con le pinze, poiché una coscienza unica potrebbe comunque essere divisa in “piani”, e in tal caso i soggetti (= punti di vista) concordanti dovrebbero trovarsi sullo stesso piano o su piani ravvicinati. Su questa terza soluzione torneremo più avanti, la quale è stata esplorata in occidente dal neoplatonismo e in oriente dalla filosofia indiana, trovando infine agganci nella AFT.


[1] Prima guerra persiana: 492-490 a.C.; seconda guerra persiana: 480-479 a.C..
[2] Mario Untersteiner, I sofisti, Milano 1996, p. 537.
[3] Fabrizio Coppola, Il Segreto dell’Universo: Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, Edizioni L’Età dell’Acquario 2003.


 
L'inganno dei sensi

La corrente degli scettici, in particolare con Pirrone di Elide (360-275 a.C.), prende il relativismo dei sofisti e lo estremizza nel dubbio assoluto, che è la convinzione di non poter approdare ad alcun tipo di verità. E la contraddizione è evidente, poiché essi formulano una verità per dimostrare che non esistono verità, ma se così fosse dovrebbero scartare anche la verità appena formulata.

Sant’Agostino (354-430 d.C.) risolse per primo la questione, affermando che il dubbioso non può dubitare almeno di stare dubitando. Perciò, il fatto stesso che egli dubiti fornisce la dimostrazione della sua esistenza. Questo principio cardine fu ripreso da Campanella (1568-1639) e da Cartesio (1596-1650), che ne fece una sintesi nel famoso cogito ergo sum (penso quindi esisto). Nel mezzo si inserisce la filosofia del frate Guglielmo di Occam (1285-1347). Dal libro di F. Coppola:
Egli afferma che l’unica fonte di conoscenza è l’esperienza sensibile, e tutto ciò che non può essere percepito con i sensi non può essere conosciuto. […] Occam giunge a dichiarare che devono essere rifiutati perfino principi come quello di causa e sostanza! Infatti noi possiamo essere certi soltanto dei fatti particolari che ci derivano dai sensi; è poi la nostra ragione che li collega attraverso i concetti di causa e di sostanza. […] Se mangio una mela, posso vederla, odorarla, assaporarla, e fondendo tutte queste impressioni dei sensi la mia ragione crede che la mela sia costituita di una reale sostanza oggettiva e materiale. Tale presunta sostanza però resta di per sé sconosciuta e non può essere oggetto di un’effettiva esperienza, poiché noi in realtà percepiamo solo delle sensazioni (tatto, odore, sapore) che attribuiamo a tale sostanza, ma non percepiamo la sostanza in sé.[1]

Si spiega facilmente anche il pensiero di Occam sulla causa. Ipotizziamo che per 100 volte io assista allo svolgersi dell’evento B immediatamente dopo l’evento A. Alla 101-esima occorrenza di A mi aspetterei per abitudine che segua di nuovo l’evento B. Sarei inoltre fiducioso che esista una legge naturale che pone B in conseguenza di A. L’unica certezza sarebbe però che per 100 volte si è presentato prima A e dopo B, mentre non ci sarebbe alcuna prova che B dipenda da A; la legge di causa-effetto potrebbe così rivelarsi una conclusione fallace dovuta a un eccesso di fiducia nell’invariabilità della successione degli eventi.

Escluso il caso di Gorgia, per oltre duemila anni i filosofi occidentali sono rimasti convinti che una realtà oggettiva (o sostanza in sé) dovesse esistere malgrado l’impossibilità di conoscerla. Mancando una prova logica, Cartesio, Occam e Galileo hanno cercato un garante della sua esistenza nel Dio cristiano.

Che si trattasse di un dogma duro a morire è evidente nel pensiero degli empiristi, coloro che in sintesi confidavano nella sensazione come unico strumento per conoscere la realtà, degradando di contro la speculazione. Il primo di questi fu l’inglese Thomas Hobbes (1588-1679), secondo cui «la materia e il suo moto sarebbero alla base di ogni fenomeno, sia naturale che psichico. [Per lui] La sensazione è dovuta al contatto della materia esterna con gli organi di senso, le cui modificazioni si propagano materialmente al cervello dove suscita una reazione e quindi la sensazione.»[2] La stessa attività conoscitiva, i desideri e il ragionamento sono per Hobbes il risultato collaterale di processi meccanici attuati dalla materia stessa.

Spiega F. Coppola che:
«un difetto di questo ragionamento, che pure muove da un desiderio di perfetta oggettività dell’universo, è quello di riferirsi esclusivamente alla sensazione, la quale è individuale e conduce così a un inevitabile soggettivismo.»[3]

Hobbes riconosce in effetti la fallacia della sensazione e sa benissimo di non poter conoscere la realtà oggettiva. Ciononostante non dubita della sua esistenza, e non può fare a meno di pensare che quell’ignota cosa in sé resti all’origine di ogni fenomeno fisico e psichico.

Altro empirista fu John Locke (1632-1704), nome che è stato intelligentemente proposto da J.J. Abrams in LOST:

Locke chiama «idee» i contenuti della mente umana e sostiene che esse derivano dall’attività dei sensi (senso esterno) e dalla riflessione dell’intelletto stesso (senso interno), che rielabora le sensazioni precedentemente acquisite dall’esterno. Le idee complesse sono per Locke le produzioni dell’intelletto, che riordina e rielabora le sensazioni. Tra queste vi è l’idea di sostanza, che quindi secondo Locke è creata dall’intelletto e non esiste effettivamente nella realtà oggettiva. Locke interpreta la sostanza come un semplice nome vuoto con cui viene indicato qualcosa che resta inconoscibile. Perciò Locke si chiede: oltre alla rappresentazione soggettiva, esiste veramente la realtà esterna?[4]

Locke fornisce una risposta che sembra più un’evasione dal problema, rivelandosi di fatto un indeciso tra una visione empirista alla Hobbes, per cui la sostanza esiste senza dubbio, e la visione degli idealisti che verranno dopo di lui, per cui la realtà esterna non esiste affatto. Locke ammette che ci sia una fonte (realtà) esterna da cui provengono i segnali, ma questi arriverebbero “a pioggia”, in maniera disordinata, e sarebbe poi l’intelletto a organizzarli in pacchetti, mettendo qui “le sensazioni di colore, forma, consistenza, sapore che identificano una mela” e da un’altra parte “le sensazioni di colore, forma, consistenza, rugosità che identificano una ruota d’auto”. Ovvia conseguenza di questa visione è che lo spazio stesso diventa un costrutto artificioso dell’intelletto atto a disporre questi segnali in maniera coerente. Locke non lo dice espressamente, ma è la conseguenza inevitabile del suo modello. A dirlo chiaramente sarà invece Immanuel Kant (1724-1804).

Diversamente da Locke, l’altro empirista Hume (1711-1776) rifiuta l’esistenza di una coscienza o comunque di idee insite nell’intelletto preesistenti alle impressioni e deputate al loro ordinamento. Egli ritiene piuttosto che le impressioni tendano ad associarsi spontaneamente per inclinazione naturale, sfruttando al più i processi meccanici del cervello (inteso come un organo-macchina assolutamente materiale). La stessa coscienza sarebbe riconducibile per Hume a un insieme di impressioni.

David Hume critica entrambi i concetti di spazio e tempo e sostiene che entrambi siano il frutto di una tendenza all’associazionismo insita nelle impressioni. Quando un soggetto guarda o tocca un oggetto, ad esempio una mela, egli riceve numerosi segnali corrispondenti a un certo colore e a una certa sensazione tattile, che per la loro quantità vengono immagazzinati dall’intelletto come provenienti da tanti punti continui, con una disposizione tale da fargli costruire mentalmente ciò che per lui è una mela. Così nell’intelletto si genera l’idea di spazio.

Hume come Occam mette in dubbio la validità del principio di causa-effetto. Spiega F. Coppola che Hume «vede separatamente i singoli fatti e sostiene che il loro collegamento tramite relazioni di causa-effetto sia solo un atto arbitrario del soggetto. Hume quindi dice che la fiducia dell’uomo nel principio di causalità è solo dovuta all’abitudine, ma esso non  ha alcuna validità poiché non garantisce che continuerà ad essere rispettato in futuro.»[5] Occam tuttavia non dubitava che i fatti accadessero in sequenza, cioè che taluni di essi avvenissero prima o dopo di altri. Hume propone invece una sorta di “eterna contemporaneità” in cui le impressioni di tutta un’esistenza (o di tutta la storia) sono presenti contemporaneamente, ed è solo l’intelletto che impone loro un ordine generando l’impressione del tempo.

Sant’Agostino aveva usato la stessa argomentazione per dare una…

…soluzione al seguente problema filosofico: «Cosa succedeva prima che dio creasse il mondo?». Secondo Sant’Agostino tale domanda non ha senso, poiché il tempo è una caratteristica che fa parte del mondo creato, e non può essere estrapolato e applicato a presunti tempi anteriori alla creazione, proprio perché il tempo può essere concepito solo all’interno del creato stesso. In particolare, egli concepisce il tempo come «distensione dell’anima», cioè come modo in cui la ragione umana può cogliere la realtà. In ultima analisi ciò equivale a immaginare il tempo come un’entità psicologica o soggettiva.[6]

Considerazioni di questo tipo mi hanno sollecitato a formulare un modello fisico denominato Arrangement Field Theory, in breve AFT. Come per Hume, anche in AFT spazio e tempo (e spazio-tempo) non sono grandezze fondamentali ma emergenti. Il campo unico presente in AFT è definito su un insieme di “oggetti” che sono chiamati “atomi di spazio-tempo” e che possiamo intendere come i mattoni fondamentali che compongono il tessuto spazio-temporale stesso.[7] Essi non possiedono a priori nessuna relazione reciproca; in altre parole, preso un “atomo” qualsiasi, non sono definiti a priori quali siano gli altri “atomi” a contatto con lui. Sono i valori variabili del campo che determinano con quale probabilità una data misura farà trovare due “atomi” a contatto tra loro. Così ad esempio, dati “atomi” qualsiasi nel nostro universo, per quanto lontani, esisterà sempre una possibilità, per quanto remota, che una misura di distanza tra di essi li rilevi accostati l’un l’altro. In base a questa possibilità più o meno remota, diremo che due atomi sono più o meno connessi.

Anche una tale costituzione tuttavia non consentirebbe a corpi estesi di accorciare viaggi interstellari, in quanto questi corpi percepirebbero comunque uno spazio-tempo (detto “classico”) definito dalle relazioni di accostamento più probabili. Cionondimeno si potrebbero sfruttare le configurazioni di accostamento poco probabili (dette “pertubazioni”) per lanciare segnali. Queste diventano infatti sicure se ci accontentiamo di trovarne una tra miliardi di miliardi, cercando ad esempio una connessione tra un “atomo” qualsiasi entro un chilometro cubo qui e un “atomo” qualsiasi entro un chilometro cubo su Andromeda, ammettendo pure che questi due “atomi” siano diversi da istante a istante. Come dire, è improbabile che io vinca la Lotteria Italia, ma è sicuro che tra tutti gli italiani ce ne sia uno che vinca. Connessioni di questo tipo si realizzano nel già noto fenomeno di entangelment, ed esperimenti per la trasmissione di segnali via entanglement hanno già avuto successo.[8]


[1] Fabrizio Coppola, Il Segreto dell’Universo: Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, Edizioni L’Età dell’Acquario 2003.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Si faccia attenzione a non confondere questi “atomi di spazio tempo” con gli atomi veri e propri che definiscono gli elementi chimici. Chiamiamoli per semplicità “atomi chimici”. Mentre i primi definiscono il più piccolo frammento di spazio-tempo, i secondi sono invece una combinazione ordinata di vibrazioni che hanno luogo nello stesso. Con un’immagine colorita potremmo pensare agli “atomi di spazio-tempo” come dei frammenti piccolissimi di tessuto che il campo-unico cuce l’un l’altro in diverse combinazioni possibili. In ciascuna di queste possono poi crearsi dei rigonfiamenti che si spostano come onde sul tessuto, e questi rigonfiamenti sono le particelle fondamentali che compongono gli “atomi chimici”.
[8] Divulgazione: Anton Zeilinger, Il velo di Einstein, capitolo III.2, Einaudi 2005; Massimo Teodorani, Teletrasporto, Macro 2007; ISBN 88-7507-778-9. Risultati teorici: C. H. Bennett, G. Brassard, C. Crépeau, R. Jozsa, A. Peres, & W. K. Wootters, Teleporting an unknown quantum state via dual classical and Einstein-Podolsky-Rosen channels, Phys. Rev. Lett. 70, pp. 1895-1899 (1993). Esperimenti con fotoni: D. Bouwmeester, J.-W. Pan, K. Mattle, M. Eibl, H. Weinfurter, & A. Zeilinger, Experimental quantum teleportation, Nature 390, 6660, 575-579 (1997); D. Boschi, S. Branca, F. De Martini, L. Hardy, & S. Popescu, Experimental realization of teleporting an unknown pure quantum state via dual classical an Einstein-Podolsky-Rosen channels, Phys. Rev. Lett. 80, 6, 1121-1125 (1998). Esperimenti con atomi: M. Riebe, H. Häffner, C. F. Roos, W. Hänsel, J. Benhelm, G. P. T. Lancaster, T. W. Körber, C. Becher, F. Schmidt-Kaler, D. F. V. James, R. Blatt: Deterministic quantum teleportation with atoms, Nature 429, pp 734 - 737 (2004); M. D. Barrett, J. Chiaverini, T. Schaetz, J. Britton, W. M. Itano, J. D. Jost, E. Knill, C. Langer, D. Leibfried, R. Ozeri & D. J. Wineland: Deterministic quantum teleportation of atomic qubits, Nature 429, p. 737.



 
 
Recipienti e lenti colorate

Il filosofo di transizione tra empirismo e idealismo è il vescovo di Cloyne – Irlanda – George Berkeley (1685-1753). Egli nega l’esistenza di una realtà esterna materiale, ma suggerisce che esistano delle “sorgenti d’impressioni” interne alla mente, che nel suo caso viene intesa come qualcosa di assolutamente spirituale. Mentre Locke distingueva tra i 5 sensi esterni, atti a trasdurre le impressioni, e un senso interno deputato alla loro elaborazione, Berkeley riunisce tutto nel senso interno. Nello schema di Berkeley è comunque precaria la distinzione tra idee reali, generate dall’elaborazione di sensazioni provenienti dalle “sorgenti”, e idee fantasiose, ovvero prodotte dal senso interno senza alcuna alimentazione.

Secondo Berkeley le idee reali si presentano tutte con ordine logico e coerente, e per questo – aggiunge – le sorgenti delle impressioni che le generano debbono essere alimentate da uno spirito assoluto, cioè Dio. Quando due soggetti si incontrano e interagiscono, è sempre Dio ad assicurarsi che essi ricevano le stesse impressioni e che producano pertanto idee compatibili. Insomma, se un’idea si presenta all’interno di una sequenza ordinata e coerente, allora probabilmente è reale.

Come Cartesio, Berkeley chiama Dio a farsi garante alla realtà (anche se per Cartesio la realtà era esterna). Le cose in sé esistono quindi nella mente di Dio, che le rende oggettive e reali anche se non materiali.

E’ chiaro che qui si sta tagliando in quattro un capello, perché la questione si riduce a un problema di nomenclatura. Tolta la necessità di un supporto materiale che faccia da fonte per l’impressione, potremmo decidere di chiamare reale tutto ciò che manifesta coerenza senza per forza tirare in ballo Dio. Con questa definizione è chiaro che MatriX sarebbe reale, con un programma che fa le veci di Dio. Se poi esistesse una sola coscienza, laddove i soggetti siano punti di vista da cui la coscienza osserva sé stessa (come accennavamo parlando di Gorgia), i garanti del reale sarebbero allora i soggetti stessi, che senza saperlo sarebbero uniti/connessi l’un l’altro per comporre Dio.

Per chiudere con Berkeley, egli può ritenersi un filosofo idealista (convinto cioè che tutto esista nelle idee) e allo stesso tempo un filosofo empirista (perché nel suo schema ogni idea deriva dalle impressioni, anche se la loro fonte non è materiale).

Immanuel Kant (1724-1804) ripercorre la strada tracciata da Hume e ribadisce l’artificiosità dei concetti di spazio e tempo. Per Hume tuttavia spazio e tempo erano concetti “emergenti”, impressioni secondarie dovute a una naturale tendenza ad aggregarsi ordinatamente che sarebbe insita nelle stesse sensazioni. Kant è d’accordo con Hume sull’inesistenza di spazio e tempo nella realtà esterna, ma non concorda sulla loro emersione spontanea, sostenendo piuttosto che essi esistano a priori nella coscienza come contenitori in cui l’intelletto introduce ordinatamente le sensazioni provenienti dall’esterno. Kant paragona spazio e tempo a un recipiente che contiene un liquido, costringendolo ad assumere la propria forma, o a lenti colorate, che costringono l’oggetto ad assumere il proprio colore, o a un timbro che modella la ceralacca. La stessa visuale si estende alle cose. Kant si domanda:
Cosa è la cosa in sé? Non è possibile conoscerla, poiché noi percepiamo solo i fenomeni secondo le forme a priori [i contenitori] proprie del nostro intelletto: ma il fenomeno è ciò che appare all’intelletto e non è ciò che realmente esiste, cioè non è la cosa in sé, o noumeno. Perciò il noumeno, che è la vera realtà, resta inconoscibile alla ragion pura. Come già in Locke, la ragion pura rimane chiusa in sé stessa e non può accedere alla realtà del noumeno.[1]

In questo campo la filosofia di Kant è praticamente identica a quella di Locke, con l’intelletto che raccoglie le impressioni e le organizza in pacchetti corrispondenti alle sostanze. La differenza è che Locke 
1) non affronta la questione del tempo, e 
2) non sottolinea il ruolo del soggetto, il quale dà l’impressione di subire passivamente i processi meccanici del suo intelletto che raccolgono e impacchettano i dati. 

La condizione pare invariata nel modello di Kant, il quale tuttavia la propone con toni che sembrano voler forzare un’interpretazione attiva del ruolo del soggetto. Per Kant «il soggetto illumina la realtà oggettiva ordinando i dati che provengono dai sensi. In altre parole l’ordine e la razionalità non stanno nell’oggetto bensì nel soggetto, che in tal modo diventa il legislatore della natura»[2].

Kant sfrutta inoltre l’idea dei “contenitori” per risolvere il contrasto tra libero arbitrio e principio di causa-effetto. Secondo Kant ogni uomo avrebbe dentro di sé una forma a priori (contenitore) che gli farebbe percepire la natura come se fosse composta armoniosamente e finalisticamente. In pratica l’intelletto fa coincidere ciò che l’uomo vorrebbe fare con ciò l’uomo deve fare. Esso fa sì che l’uomo desideri di fare la sola cosa che gli è possibile fare.

Kant non può però considerarsi un empirista: egli ammette che la cosa in sé o noumeno non può essere conosciuta attraverso la pura ragione, ma aggiunge che l’uomo può accedere al noumeno attraverso il sentimento o la morale. La sua opinione è molto simile a quanto espresso da Plotino (203-270 d.C.), secondo cui la verità può essere colta da un’intuizione raggiungibile per gradi: esercizio delle virtù nella vita pubblica, contemplazione dell’arte e dell’amore, contemplazione filosofica e infine estasi.


[1] Fabrizio Coppola, Il Segreto dell’Universo: Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, Edizioni L’Età dell’Acquario 2003.
[2] Ibidem.





Nulla di reale là fuori

Se vogliamo proseguire coi filosofi idealisti (Fitche, Schelling ed Hegel) è necessario prima illustrare alcuni concetti da essi impiegati che risalgono a una corrente precedente: il neoplatonismo, che prende nome da Platone ma che sui temi in esame attinge da lui poco o niente.

Il maggior filosofo neoplatonico fu [il succitato] Plotino (203-270 d.C.), il quale ebbe modo di viaggiare anche in Persia e in India e di assimilare così i concetti filosofici orientali, che risultano evidentissimi nella sua filosofia, e perfino più importanti della stessa influenza platonica. La filosofia di Plotino presenta infatti strette affinità col sistema filosofico indiano del Vedanta. Plotino concepisce la realtà come unità assoluta, totalità e completezza: la molteplicità è solo un’apparenza e solo l’Uno esiste. E’ evidente l’affinità con il Brahman della filosofia indiana.

L’Uno è del tutto trascendente rispetto al mondo molteplice dei fenomeni, eppure dà origine a tale mondo attraverso un processo di emanazione. [Per la filosofia indiana è il Brahman che dà origine a Maya, la realtà parziale e illusoria. Quest’ultima] è la stessa realtà assoluta vista però attraverso le lenti dell’incompletezza, della parzialità, per cui solo un aspetto alla volta viene colto, il ché dà luogo alla nascita della molteplicità dall’unità.[1]

Il termine esoterico-filosofico emanazione non è perciò da intendersi come un processo di creazione attiva ma come una sorta di risveglio. Anticipando quanto andremo a dire più avanti, laddove nell’Universo viene raggiunto un certo grado di complessità (un numero sufficientemente alto di elementi in grado di emettere e ricevere segnali elementari di tipo acceso/spento, sufficientemente connessi tra di loro) ecco che la coscienza si risveglia e comincia a guardare/studiare sé stessa da quella prospettiva limitata. Tutti gli altri punti in cui lei si risveglia sono visti da qui come soggetti esterni, come qualcosa che è “altro da sé”. Ma questa è Maya, l’illusione. Nell’Uno/Brahaman si realizza invece l’unità tra soggetto pensante e oggetto pensato.

La zona più densa e interconnessa di un “punto di risveglio” diventa il suo centro di elaborazione, il “senso interno” o intelletto. Una zona più rarefatta e le cui connessioni sono rivolte principalmente alla zona densa e all’altrove (scarseggiando le interconnessioni) diventa invece la zona di percezione responsabile dei 5 sensi cosiddetti “esterni”.

Chiaro che se applichiamo i postulati dell’AFT il termine “zona” diventa improprio, e deve essere inteso banalmente come “insieme di punti” o di “atomi di spazio-tempo”, senza che si intendano tra essi relazioni di adiacenza precostituite (in pratica senza che esista una loro collocazione spaziale e temporale a priori). Sono infatti le connessioni stesse a dare origine all’idea di spazio (gli “atomi” più connessi sono interpretati dall’intelletto come vicini) e di tempo (configurazioni di “atomi” ordinabili in sequenza, in modo tale da avere variazioni minimali tra una configurazione e la successiva, vengono interpretare dall’intelletto come la stessa configurazione che si evolve lungo una linea temporale determinata appunto dalla sequenza di minima variazione).

L’Uno/Brahman riunisce ogni soggetto e oggetto in tutti i loro istanti. Includendone ogni istante, esso comprende in sé l’evoluzione stessa delle cose e il loro modo di relazionarsi (ovvero le leggi fisiche). Ne è il motore perché il movimento di ogni cosa è la cosa stessa in istanti successivi, ma è anche immanente e immutabile, perché comprendendo ogni tempo non ha altro tempo in cui mutare.

Giordano Bruno (1548-1600), protagonista di un revival neoplatonico rinascimentale, dirà che l’Uno (che lui chiama Dio) è natura naturante, ovvero «anima» del mondo che produce e forma l’Universo, e contemporaneamente natura naturata, ovvero l’Universo nella sua molteplicità. Se Galileo rischiò di finire sul rogo per una sua sospettata adesione al sistema Copernicano, Bruno la sua adesione non provò neppure a nasconderla, aggiungendovi due caratteri che oggi sono dogmi per la scienza cosmologica, ovvero che l’Universo non abbia confini e che ogni punto possa esserne considerato il centro. In conseguenza di ciò riteneva che esistessero molti sistemi planetari che ruotavano attorno ad altri soli, e che in alcuni di questi potesse esserci la vita. 
Il 17 febbraio 1600 venne arso vivo in Campo de’ Fiori a Roma.

Bruno, come Telesio e Campanella, attribuisce alla natura la stessa essenza spirituale dell’uomo: tutta la natura viene creduta possedere una qualche sensibilità. I tre filosofi propongono una forma di panpsichismo, una visione dell’Universo dove tutto è spirito. Dio, in quanto Uno, è allo stesso tempo la mente al di sopra di tutto (mens super omnia) e la mente insita in tutte le cose (mens insita omnibus).

Su questo modello si agganciano Fitche e gli altri idealisti. Se esiste un’unica coscienza e l’Universo coincide con essa, allora la sola realtà esistente è quella interna. La materialità si scopre essere un’illusione dei sensi, frutto perciò della visuale limitata dei “punti di risveglio”.

Johann Gottlieb Fitche (1762-1814) ritiene che il modello dei “contenitori” formulato da Kant (che potremmo far coincidere col modello a connessioni dell’AFT) abbia come inevitabile conseguenza che la cosa in sé non esiste. Secondo Fitche, scrive F. Coppola, «nella realtà esiste solo il soggetto, e l’Universo è solo una sua enorme proiezione cosciente, un gioco cosmico dell’Io all’interno di sé stesso. […] 
Il principio da cui deriva tutta la realtà della natura e dei singoli uomini è un io infinito, universale, la cui attività pura e assoluta consiste nel pensare sé stesso, creando così la molteplicità dei fenomeni dell’universo.»[2]

In AFT la cosa in sé non esiste in quanto ogni forma e struttura è frutto di un’interpretazione delle connessioni  tra “atomi”. Niente connessioni = niente spazio e niente forme, solo un insieme disordinato di “atomi” senza un “dove” e un “quando”. L’esistenza stessa di un soggetto è pertanto il frutto di un “concentrato di connessioni”, ma essendo in pratica tutto connesso (seppur più debolmente), ogni soggetto è solo un “punto di risveglio” dell’unico Io universale.

Per Fitche la realtà è soggettiva rispetto all’unico grande Io, sicché essendo uno, la realtà è uguale per tutti. Resta comunque da fare una precisazione. Immaginiamo che esista un numero minimo (N) di connessioni tra un soggetto e un (s)oggetto affinché il primo sia capace di percepire coscientemente il secondo. Chiamiamo “piano” un insieme massimale di oggetti e soggetti nel quale per ogni (s)oggetto esista almeno un altro (s)oggetto che abbia con esso un numero di connessioni maggiore di N. Essendo i piani (per definizione) massimali (cioè i più grandi possibile), tra due soggetti qualunque di due piani diversi non può esserci un numero di connessioni maggiore di N. In altre parole, un soggetto di un piano non può percepire coscientemente un (s)oggetto di un altro piano. In questo modo il Brahman risulta composto da piani dove soggetti di un piano non possono percepire coscientemente i (s)oggetti di un altro piano.

Quando un soggetto concentra le proprie connessioni su un piano, in gergo esoterico la sua coscienza viene ancorata al piano. Quando invece lo stesso soggetto distribuisce le proprie connessioni su due piani, i due piani si uniscono attraverso di lui. A rigor di logica a quel punto esiste un piano soltanto, ma per praticità di esposizione continuiamo a parlarne come due piani distinti.

Attraverso il soggetto bi-connesso, i soggetti del primo piano possono percepire gli oggetti del secondo e stabilire connessioni con essi. Più soggetti distribuiscono le proprie connessioni tra i due piani e maggiori sono le possibilità per i soggetti ancorati a un solo piano di percepire il secondo e di ancorarsi anche ad esso a loro volta. Abbiamo quindi una schematizzazione geometrica dell’“effetto calamita” citato all’inizio.

Friedrich Schelling (1775-1854) ripete sostanzialmente quanto già detto. Per lui «la natura è come un gigante addormentato che si risveglia parzialmente dando origine alla vita e all’intelligenza e prendendo coscienza di sé stessa. Poiché essa si risveglia in punti isolati e separati tra loro (i singoli organismi individuali), si crea così la molteplicità dei soggetti conoscenti, che negli stadi iniziali del loro processo verso la perfetta autocoscienza filosofica, si considerano entità separate fra loro e dal resto della natura.»[3]

Glisserei su Hegel (1770-1831) poiché a mio parere il suo modello costituisce un passo indietro rispetto ai precedenti. In particolare per Hegel l’Uno comprende un unico istante presente che è quindi lo stesso per ogni “punto di risveglio”. Ciò contrasta ampiamente con quanto teorizzato dalla relatività di Einstein e sperimentato negli ultimi cinquant’anni con le misure da satellite e i viaggi spaziali, ovvero che:
  1. La contemporaneità è un concetto relativo. Due eventi che accadono contemporaneamente per un dato osservatore, potrebbero risultare distanziati per un altro osservatore;
  2. La direzione temporale non è la stessa per tutti gli osservatori. Ovvero, il tempo sperimentato da un primo osservatore potrebbe risultare una combinazione dello spazio e del tempo sperimentati da un secondo osservatore. La condizione sfiora l’assurdo superato l’orizzonte degli eventi di un buco nero: al di là la coordinata radiale diviene il tempo, mentre quello che al di qua era tempo diviene al di là una qualunque direzione spaziale.
Nella visione di Hegel esiste un’assurda contemporaneità assoluta e una direzione temporale uguale per tutti. L’Uno si evolverebbe lungo questa direzione attraverso una lotta intestina che il filosofo chiama “sintesi degli opposti”. Per i dettagli si faccia riferimento al solito libro di Fabrizio Coppola, «Il Segreto dell’Universo


[1] Fabrizio Coppola, Il Segreto dell’Universo: Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, Edizioni L’Età dell’Acquario 2003.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.






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