I gadget intelligenti in casa, in auto e addosso? Roba buona per spiarci
L’allarme arriva da James Clapper, capo dell’intelligence statunitense: “Le agenzie potranno sfruttare l’Internet of Things per sorvegliare, identificare, monitorare e individuare persone”
Domotica, auto sempre più intelligenti se non a breve autonome, gadget di ogni genere, molti dei quali indossabili.Integrati cioè ovunque,
dalle t-shirt alle scarpe passando appunto per gli apparecchi di casa
(dal termostato al tv fino al frigorifero), gli apparati medicali o gli
impianti più complicati come le reti di distribuzione energetica. Tutta roba buona, buonissima per lo spionaggio di Stato. Il re era nudo ma James Clapper, grande capo dell’intelligence statunitense, l’ha privato anche dell’ultimo panno appeso alla vita.
Intervenendo
in due commissioni del Senato statunitense il direttore dei servizi
segreti a stelle e strisce ha dichiarato che i governi di tutto il mondo
non vedono l’ora, e anzi già si stanno scatenando, di impiegare il
cosiddetto Internet of Things, l’internet delle cose come uno strumento di spionaggio.
Un ulteriore elemento di instabilità globale che promette di
aggiungersi alle epidemie, al terrorismo (e anzi di essere penetrato da
esso), ai cambiamenti climatici e all’intelligenza artificiale.
È la prima volta che Clapper suggerisce uno scenario del genere: gli oggetti intelligenti che stanno invadendo le nostre vite quotidiane come piccoli sensori in grado di drenare dati, informazioni, posizioni a fini di sorveglianza. A
ben vedere una situazione cavalcabile senza problemi dalle stesse
agenzie di sicurezza statunitensi, d’altronde al centro del clamoroso
scandalo del Datagate sollevato dall’ex consulente Edward Snowden oggi rifugiato in Russia. Clapper non ha ovviamente fanno nomi. Non gli è sfuggito né un Paese né un’agenzia. Tuttavia il rischio esiste. Anzi, è pressoché certo.
Lo ha testimoniato anche un recente studio del Berkman Center for Internet & Society dell’università di Harvardche tuttavia – guarda un po’ – piazza proprio le autorità statunitensi sul banco degli imputati.
“I dispositivi intelligenti incorporati nelle reti elettriche, nei
veicoli, inclusi quelli autonomi, negli strumenti per la casa stanno
aumentando l’efficienza, il risparmio energetico e la convenienza – ha
detto Clapper – tuttavia gli analisti del settore della sicurezza hanno
dimostrato che molti di questi sistemi possono mettere a rischio la privacy, l’integrità dei dati e la continuità dei servizi stessi. In futuro le agenzie potranno sfruttare l’Internet of Things per sorvegliare, identificare, monitorare, seguire e individuare persone o sottrarre credenziali per
l’accesso alle loro reti”. Uno scenario da Datagate 2.0, se possibile
ancora più inquietante di quello venuto alla luce tre anni fa eppure
supportato da una serie di fatti avvenuti negli anni scorsi, sia nei
Tribunali che nel mondo dell’elettronica di consumo (Samsung ritirò per
esempio un tv che spiava e registrava a insaputa degli utenti).
Un tassello, ha detto il capo dell’intelligence Usa a un’altra commissione, che si aggiunge ai tanti rischi globali già in corso:
dalle epidemie (Zika è molto sentita negli Stati Uniti) alle
instabilità dei governi passando per i 60 milioni di rifugiati in tutto
il pianeta. Oltre ai cambiamenti climatici, alla conseguente domanda di
cibo e acqua e infrastrutture inadeguate. Un bel quadretto, non c’è che
dire. Ci mancavano solo gli spioni nei forni intelligenti o nei termostati smart.
“L’innovazione è fondamentale per la nostra prosperità economica ma porterà nuove vulnerabilità – ha aggiunto –l’internet
delle cose connetterà decine di miliardi di nuovi dispositivi fisici da
utilizzare. L’intelligenza artificiale consentirà ai computer di
prendere decisioni su dati e sistemi fisici e, potenzialmente, ribaltare
il mercato del lavoro”.
È proprio di ieri la decisione della National Highway Traffic Safety
Administration che ha di fatto messo sullo stesso piano i computer dei
veicoli autonomi ai guidatori in carne e ossa. FONTE
Cos’è l’Internet delle cose?
Orologi,
bracciali, termostati e mille altri oggetti possono connettersi alla
Rete: secondo una ricerca, nove persone su dieci lo ignorano, anche se
li possiedono già. Spieghiamo i motivi di un successo che si fa
attendere
Di Antonio Caffo
Quanti di voi conoscono il significato di “Internet degli oggetti” o, in lingua madre, “Internet of things” (IoT)?
Seppur se ne parli spesso negli ultimi tempi, pare che la nozione non
sia molto familiare all’utente medio, colui che ha una discreta
dimestichezza con gli strumenti tecnologici ma non può essere
considerato un esperto. A evidenziare una certa ignoranza in materia,
normalissima vista la tematica in ascesa ma ancora di nicchia, è una ricerca di Acquity Group (che si scarica qui ),
agenzia parte di Accenture, da cui risulta come circa l’87% dei duemila
intervistati non abbia mai sentito parlare di “Internet degli oggetti”.
Il report “The Internet of Things: The Future of Consumer Adoption ”
contiene degli evidenti paradossi, soprattutto a livello etimologico.
Ad esempio si legge come il 30% dei consumatori possegga già un
dispositivo che rientra nella categoria “Internet degli oggetti”, tra
cui un termostato, un orologio o un braccialetto connesso, ma non sanno
di potersi vantare di avere un “IoT” tra le mani. Insomma quello che
manca sembra essere una corretta campagna di comunicazione e promozione
dei nuovi gadget che si apprestano a invadere negozi e catene
specializzate. Giusto per essere ancora più precisi, orologi e
bracciali, grazie alla possibilità di essere indossati, rientrano nella
categoria chiamata “wearable”, ovvero di oggetti che ognuno può mettere
al polso o (nel caso dei Google Glass) sugli occhi, per interagire in
modo innovativo con il web.
Ma come spiegare cosa si intende per “Internet degli oggetti”? Lo abbiamo chiesto a Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali all’Università
di Catania: “L’espressione “Internet delle cose” indica una famiglia di
tecnologie il cui scopo è rendere qualunque tipo di oggetto, anche
senza una vocazione digitale, un dispositivo collegato ad internet, in
grado di godere di tutte le caratteristiche che hanno gli oggetti nati
per utilizzare la rete”. Attualmente le proprietà degli oggetti connessi
sono essenzialmente due: il monitoraggio e il controllo.
Monitoraggio vuol dire che l’oggetto può comportarsi come sensore,
ovvero essere in grado di produrre informazioni su di sé o sull’ambiente
circostante.
Ad esempio: un lampione IoT non
solo può rivelare se la propria lampada è funzionante oppure no, ma
potrebbe anche analizzare il livello di inquinamento dell’aria.
Controllo vuol dire che gli oggetti possono essere comandati a distanza senza
tecnologie particolari ma attraverso internet”. I campi di applicazione
sono innumerevoli, il limite è solo la fantasia. “Attualmente i settori
più interessati sono la domotica, in cui gli oggetti IoT invadono le
tecnologie casalinghe, compresi gli elettrodomestici, e le smart cities,
dove le città diventano produttrici di dati e sono controllabili a
distanza”. È il caso dei totem digitali presenti nelle principali
capitali in tutto il mondo, che possono indicare il numero di pedoni
presenti ad una fermata del tram, gli smartphone connessi ad un hotspot
pubblico e tanto altro.
Nonostante
le principali aziende abbiano lavorato molto per far conoscere al mondo
le nuove possibilità dell’Internet of Things, il report di Acquity Group ha rilevato una certa mancanza di interesse verso i dispositivi connessi. La principale barriera all’acquisto pare essere la convinzione che l’utilizzo degli IoTnon
dia un valore aggiunto alle persone e che il costo sia ancora elevato
rispetto allo stesso oggetto “non connesso” (semplici orologi,
bracciali, occhiali), con le ovvie differenze. Sembra poi esservi un
certo timore su come viene gestita la privacy sugli indossabili, con la
paura che sia i dati conservati sul dispositivo che quelli raccolti con
l’esperienza quotidiana possano essere facilmente trasmessi all’esterno.
Ed
è proprio quest’ultima problematica quella che potrebbe avere le
conseguenze maggiori nello sviluppo di nuovi indossabili o, più
generalmente, di “Internet degli oggetti”. Come ci spiega Bennato: “Gli scenari problematici sono due: la privacy e la sicurezza.
Il primo punto è una conseguenza del monitoraggio. Se un oggetto IoT
produce dati, questi potrebbero essere relativi a persone e al loro
utilizzo. La manipolazione di queste informazioni ricadrebbe nel
discusso campo della trasparenza e trattamento dei dati personali. La sicurezza è invece una conseguenza del controllo: se qualunque oggetto può essere comandato a distanza, potrebbe anche essere attaccato da criminali informatici.
Ed è per questo che quando si parla di IoT entrano
in gioco altre tecnologie, come l’IPv6 (il nuovo protocollo internet
che permetterà di aumentare il numero di indirizzi IP a disposizione),
Big Data (la raccolta di informazioni dettagliate su uno specifico
individuo) e cloud computing, in riferimento alla sicurezza e stabilità
delle infrastrutture che conservano le informazioni inviate e scambiate
tra dispositivi IoT e tradizionali, smartphone, tablet e computer ma
anche i data center delle aziende.” FONTE
Fonte: NoGeoingegneria.com
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