Negli ultimi anni si è intensificato il dibattito, in bioetica, riguardo allo human enhancement, o potenziamento umano.
Stiamo parlando di interventi medici, realizzati per via farmacologica,
di manipolazione genetica o tramite l'ibridazione uomo-macchina,
attuati su pazienti sani. La peculiarità di tali interventi è proprio il
loro fine, che non è più tradizionalmente terapeutico, bensì migliorativo.
Le tipologie, i metodi e i fini del potenziamento sono stati riordinati e classificati in uno studio del 2009, redatto da una commissione scelta dal Parlamento europeo.
In particolare, attira l'attenzione il potenziamento di tipo cognitivo (cognitive enhancement). Lo scopo di un simile trattamento è ampliare e intensificare le capacità della nostra mente
come la memoria, la velocità, la concentrazione e l'efficienza grazie
alla stimolazione magnetica transcranica (TMS), oppure tramite
l'utilizzo di farmaci, alcuni dei quali sono già in commercio con lo
scopo originario di aiutare persone che soffrono di carenza di
attenzione o di problemi affini.
“Nelle neuroscienze cognitive si studia quale possa essere l'effetto
di certi metodi non per curare i sani, ma per curare alcuni problemi”.
Questo è ciò che ci spiega Raffaella Rumiati, professoressa di
neuroscienze cognitive alla SISSA di Trieste. “La TMS viene usata per
curare i sintomi della schizofrenia con ottimi effetti. Poi viene usata
anche per il trattamento delle afasie nella logopedia”. Questo è lo
scopo originario della TMS, ma, come ricorda lo studio sull'enhancement, il suo uso sembra poter essere ampliato anche al potenziamento delle prestazioni mentali di pazienti già sani.
Per quanto riguarda i farmaci, invece, ricordiamo per esempio il Ritalin, medicinale psicostimolante che nasce con lo scopo di curare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.
Nel momento in cui farmaci del genere vengono assunti o prescritti off label, cioè per uno scopo diverso da quello per cui sono stati pensati, ecco che perdono la loro finalità terapeutica
e vengono usati, al contrario, per intensificare ulteriormente
prestazioni mentali il cui funzionamento rientra già nella norma. Sembra
dunque che il passaggio dal terapeutico al migliorativo
stia avvenendo in questo modo, e non essendo sempre chiaro lo scopo per
cui un certo farmaco viene assunto, il confine tra cura e potenziamento
diventa alquanto sfumato e non sempre rintracciabile.
Tra i sostenitori del potenziamento che hanno offerto argomenti favorevoli all'uso di sostanze neurostimolanti (e all'enhancement cognitivo in generale), ricordiamo in particolare John Harris, filosofo e bioeticista inglese dell’Università di Manchester. Uno dei suoi contributi principali sull'argomento è il libro Enhancing evolution - the ethical case for making better people.
Harris si appella spesso alla responsabilità di automigliorarsi come
uno dei caratteri peculiari dell'essere umano (per chi volesse
approfondire la questione e seguire più approfonditamente il
ragionamento, può ascoltare una sua lezione qui).
Se avessimo la possibilità di aiutare uno studente a ricordare il doppio
delle informazioni nella metà del tempo grazie a un semplice farmaco,
si chiede Harris, perché non dovremmo farlo? Le sostanze in questione,
secondo la sua opinione, potrebbero idealmente portare un individuo a
vivere al massimo delle sue possibilità, rendendolo
davvero in grado di esprimere la sua libertà perseguendo gli obiettivi
che si prefigge, superando in una certa misura i limiti naturali del suo
cervello.
Tuttavia, posizioni come quella di Harris non sono universalmente
accettate nell'ambito del dibattito sull'argomento. Il Comitato
nazionale per la bioetica italiano (CNB) ne parla nel documento Neuroscienze e potenziamento cognitivo farmacologico: problemi bioetici del 2013, che viene ancora citato spesso come punto di riferimento per affrontare la discussione in maniera critica.
Il documento, consultabile qui, raccoglie e mette in ordine i principali motivi di preoccupazione riguardo ai farmaci neurostimolanti.
Si parla, per esempio, del pericolo che si crei un divario sociale
tra persone potenziate e non potenziate, tema molto caro anche alla
professoressa Rumiati, la quale specifica che per quanto riguarda l'uso
di farmaci o della TMS per l'enhancement cognitivo, chi si serve di questi mezzi si trova in una posizione avvantaggiata rispetto
a chi non lo fa.
Non tutti hanno la possibilità di sottoporsi a questi trattamenti, per
motivi principalmente economici, per cui si rischia che gli effetti di
tali trattamenti vadano ad allargare ulteriormente un divario economico e
sociale già presente.
Non si devono sottovalutare, poi, i riferimenti a quella che potremmo definire una medicalizzazione esagerata e superflua, della quale si parla anche nel documento del CNB.
“La medicalizzazione, concentrandosi sull’aspetto biologico del disagio, tende a sottovalutare, se non a disconoscere, le cause sociali e familiari/relazionali che possano essere all’origine del malessere" CNB – Neuroscienze e potenziamento cognitivo farmacologico: problemi bioetici (2013)
In una società fortemente stimolata da simili farmaci,
che ruolo assumono metodi di potenziamento più “tradizionali” quali
l'educazione, l'istruzione, o l'esercizio fisico e mentale?
La professoressa Rumiati ci aiuta a chiarire la questione constatando
che il trattamento, curativo o migliorativo che sia, senza
l'accoppiamento della riabilitazione o di un insegnamento finisce nel
nulla. Perciò, per quanto possa sembrare attraente l'idea di
migliorare le proprie prestazioni cognitive grazie a un farmaco, bisogna
tenere a mente che questo non può sostituire, ma solo essere combinato
con altri metodi. Insomma, si tratta di “trattamenti sintomatici, non
risolutivi; anche perché l'effetto del farmaco prima o poi finisce”.
Il CNB conclude il documento del 2013 con una posizione di cauta
apertura nei confronti del potenziamento cognitivo. Non si schiera
totalmente contro, ma ritiene necessaria una regolamentazione ordinata
del modo in cui sostanze del genere vengono prescritte, e un maggiore impegno nella ricerca e nell'informazione riguardo ai rischi e alle conseguenze sociali di certi trattamenti.
Come ci fa notare la professoressa Rumiati, è insensato fare del
moralismo o pretendere di insegnare un unico comportamento giusto. È
importante, invece, che il dibattito sul tema continui, e che la società venga maggiormente informata riguardo alle possibilità, ai modi e ai rischi del consumo di farmaci neurostimolanti.
Fonte: Ilbolive
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