domenica 3 maggio 2020

Il cambiamento climatico e la questione degli eventi estremi


Il cambiamento climatico
e la questione degli
eventi estremi


Sergio Pinna
 Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Università di Pisa


Nell'ambito del dibattito sui cambiamenti climatici in atto, la questione degli eventi estremi ha assunto un'importanza tale da essere frequentemente  identificata con l’idea stessa di detti cambiamenti. In effetti è ormai convinzione diffusa a tutti i livelli che il riscaldamento globale abbia procurato (e ancor più procurerà in futuro) un marcato aumento per intensità e frequenza di vari fenomeni meteorologici estremi. L’analisi statistica dei dati climatologici non è però in grado di confermare tale situazione, non avendo fatto emergere nel complesso delle apprezzabili tendenze alla crescita di svariate grandezze. La teoria della correlazione diretta fra temperatura globale e incidenza degli eventi estremi è anche in contrasto con le informazioni derivanti dalla climatologia storica, visto che è proprio nella fase fredda, detta Piccola Età Glaciale, che le manifestazioni violente risultano essersi concentrate molto di più rispetto a quanto rilevato per i periodi caldi, compreso il XX secolo.



Un argomento davvero
fondamentale nel dibattito


È indubbio che il cambiamento climatico sia oggi un tema di continua discussione e che esso venga sempre affrontato con toni di forte drammatizzazione, al punto che movimenti quali il ben noto Friday for Future parlano di crisi climatica in atto e di imminenti gravissimi rischi per l’ambiente e l’uomo. A mio giudizio, gli incrementi della temperatura globale già manifestatisi e quelli ipotizzati per i decenni a venire non sono affatto sufficienti a giustificare da soli quelle paure sul clima ormai diffusissime nella nostra società. Sono convinto infatti che la causa principale dei suddetti timori risieda in una sorta di associazione automatica che gran parte dell’opinione pubblica fa tra l’idea di riscaldamento climatico e quella di clima impazzito. Con questo voglio dire che certe informazioni ripetute in modo martellante hanno convinto le masse del fatto che l’innalzamento termico registratosi nel corso del XX secolo abbia procurato un vero e proprio sconvolgimento delle caratteristiche del clima, facendo aumentare nettamente il pericolo di svariati fenomeni meteorologici estremi (ciclo ni tropicali, tornado, piogge intense, tempeste di vento ecc.).

Queste mie considerazioni sono confortate da gli esiti di tanti sondaggi pubblici, quale ad esempio uno condotto dall’ARPA del Friuli-Venezia Giulia, negli ultimi mesi del 2017, raccogliendo le opinioni di un campione di oltre 3400 soggetti.

Alla richiesta di esprimere con un punteggio da 1 a 10 quale fosse il grado di gravità assegnato al problema dei cambiamenti climatici, un 75% ha indicato i tre valori più alti; un 87% ha dichiarato poi di aver riscontrato di persona che il clima sta mutando. Tra gli effetti più temuti del cambiamento, la percentuale maggiore (oltre il 70%) è andata proprio all’aumento degli eventi estremi, confermando così come sia questo l’aspetto che catalizza l’interesse della gente e che in definitiva ne alimenta le preoccupazioni [1].

L’idea del clima impazzito costituisce ormai un tipico caso di politicamente corretto che conduce alla ripetizione acritica di concetti considerati quasi come dei dogmi. Visitando, ad esempio, il sito web dell’agenzia toscana per la protezione dell’ambiente, possiamo porre l’indicatore del mouse sul termine "cambiamento/i climatico/i" e far aprire così una scheda ove si legge la relativa definizione: "Alterazione dell’equilibrio naturale del clima globale del nostro pianeta. I cambiamenti climatici principali riguardano l’aumento, in intensità e frequenza, di fenomeni estremi (uragani, temporali, inondazioni, siccità), l’aumento del livello dei mari, la desertificazione, l’aumento di temperatura e la perdita di biodiversità". Uno splendido concentrato di assurdità, sul quale pare che ben pochi abbiano da obiettare.

È d’altra parte la stessa iconografia, che immancabilmente accompagna ogni intervento di divulgazione, a farci capire come sia consolidata l’associazione del riscaldamento globale al progressivo aumento di vari fenomeni di pericolo; sono infatti costantemente utilizzate immagini che rappresentano alluvioni devastanti, terreni sconvolti da lunghi periodi di siccità, violenti tornado, bufere di vento, uragani ecc. (Fig. 1).



La questione del rapporto fra
temperatura globale ed eventi
estremi



Figura 1: Un saggio della tipica iconografia utilizzata per la divulgazione in tema di cambiamenti climatici; si tratta sempre di pericolosi eventi estremi, in grado di scatenare i timori nell’opinione pubblica.

In merito alla relazione fra temperatura ed eventi estremi, vi sono due teorie diametralmente opposte. Una prima è quella che possiamo considerare come ufficiale, in quanto accreditata dall’IPCC (Intergovermental Panel on Climate Change), il notissimo Panel creato dall’ONU per fare progressivamente il punto sugli studi relativi ai mutamenti futuri del clima, per effettuare una valutazione delle loro possibili conseguenze negative, e per poi proporre delle adeguate linee d’azione atte a mitigarle. Della teoria contraria a quella dell’IPCC il sostenitore probabilmente più autorevole è Richard Lindzen, professore emerito di scienze dell’atmosfera al MIT.
Teoria ufficiale: correlazione diretta - La crescita delle temperature causa una maggiore evaporazione, per cui in atmosfera sale il contenuto di vapore acqueo (legge di Clausius-Clapeyron) e, conseguentemente, il livello energetico, col risultato di modificare il ciclo idrologico, determinando manifestazioni violente sempre più frequenti ed intense.

Tesi Lindzen: correlazione inversa - Le manifestazioni meteorologiche estreme sono determinate dal contrasto di masse d’aria con temperature molto diverse; infatti la quantità di energia che alimenta i moti derivanti dalla cosiddetta instabilità baroclina (è quella che si manifesta in un fluido quale l’atmosfera terrestre, cioè soggetto a rotazione e caratterizzato dalla presenza di gradienti orizzontali di temperatura, o di densità, e da una stratificazione stabile) dipende dalle differenze orizzontali di temperatura che caratterizzano l’atmosfera nei suoi primi 10 km circa di spessore. Poiché è ormai acclarato che i cambiamenti climatici sono sempre assai più ampi nelle alte latitudini rispetto a quanto accade nella fascia intertropicale (su questo anche tutti i modelli fisicomatematici di circolazione globale concordano), ne risulta allora che in un mondo più caldo si avranno necessariamente minori contrasti termici e perciò moti atmosferici mediamente meno intensi, col risultato finale di osservare una riduzione degli eventi estremi [2].
È però interessante notare che fino agli inizi degli anni Novanta i climatologi erano in sostanza convinti della correlazione inversa, come emerge dallo stesso primo Report dell’IPCC, pubblicato nel 1990. In esso si può infatti leggere che non era previsto, col global warming, alcun particolare aumento della variabilità del clima e soprattutto che era ipotizzabile una riduzione nell’intensità delle tempeste delle medie latitudini, proprio perché il fattore determinante era riconosciuto nel contrasto termico equatore-poli. Successivamente le posizioni del Panel sono andate mutando e la teoria della correlazione diretta si è imposta quale paradigma ufficiale.



Cosa si evince dall’analisi delle
serie di dati


Lo studio dei dati climatologici conduce in alcuni casi a conclusioni sicuramente affidabili, mentre in altri un’effettiva definizione delle tendenze di lungo periodo può non essere evidente, lasciando così spazio a interpretazioni un po’ differenti. Ciò premesso, un fatto mi pare inequivocabile: non emerge nel complesso alcuna variazione temporale degli eventi estremi che possa essersi tradotta in modificazioni ambientali davvero percettibili. Ne deriva quindi che l’idea del clima impazzito è generata da una realtà virtuale e non da mutamenti veramente avvenuti; le note che seguono dovrebbero essere sufficienti a dimostrarlo.


Figura 2: Frequenza annua degli uragani che hanno comportato il landfall sugli USA. In azzurro è rappresentato il numero totale, in rosso quello degli eventi di categoria 3 o superiore; relativamente a questi ultimi, la striscia verde serve a evidenziare il recente lungo periodo di assenza.


Cicloni tropicali (ed extratropicali) - Per quanto riguarda la frequenza degli uragani, che hanno comportato il landfall (termine utilizzato quando il centro della struttura tocca la costa) sul territorio continentale degli USA, si osserva un moderato trend negativo 1900-2017, sia per gli eventi di tutte le cinque categorie, sia limitatamente a quelli maggiori, cioè ricadenti nelle tre classi più elevate (Fig. 2) [3]. Rispetto a questi ultimi, è da rilevarne il lungo periodo d’assenza, protrattosi dal settembre 2005 all’agosto 2017, che risulta il più esteso in assoluto dall’inizio delle rilevazioni nel 1851.

Sempre per le variazioni della frequenza, assai interessanti sono pure i dati riferiti alla parte occidentale del Pacifico boreale e forniti dall’ente nazionale giapponese (JMA). Sia la serie 1951-2016 del numero totale dei cicloni che quella 1977-2016, relativa ai soli uragani, hanno tendenza di segno negativo (Fig. 3). Le verifiche statistiche non consentono di parlare di trend significativi, ma, tenendo conto che i livelli di confidenza sono intorno all’85%, ne deriva un certo segnale di decremento e non certamente di crescita. Da segnalare anche che la fase di massimo assoluto non corrisponde a periodi recenti, ma si colloca nella parte centrale degli anni ’60, cioè quando le temperature - sia dell’aria, sia degli oceani - erano considerevolmente inferiori alle attuali.


Figura 3: L’andamento della frequenza dei cicloni tropicali nel bacino occidentale del Pacifico boreale; il grafico in basso è relativo a quelli che hanno raggiunto la forza di tifone (termine utilizzato in quest’area geografica per indicare l’uragano).



Figura 4: L’andamento 1950-2015 dell’indice ACE per i cicloni dell’Atlantico settentrionale, secondo l’agenzia americana NOAA.

Oltre alla frequenza, è poi importante verificare l’andamento dell’energia complessiva sviluppata, una grandezza che viene espressa mediante il calcolo di un indicatore (ACE, Accumulated Cyclone Energy) derivante dalla sommatoria di tutte le rilevazioni della velocità massima del vento (elevata al quadrato), effettuate, con cadenza di sei ore, per ciascun ciclone formatosi durante l’anno. Nella Figura 4 è riportato il grafico dell’andamento del suddetto indice, prodotto dalla NOAA e relativo al bacino atlantico per il periodo 1950-2015; ne emerge una notevole variabilità ed una complessiva stabilità dei valori.

Nel gennaio del 2007 la tempesta di vento Kyrill colpiva l’Europa con venti di forza di uragano, causando la morte di 47 persone e ingenti danni materiali, stimati in quasi 10 miliardi di dollari.

Immancabilmente, l’evento fu visto come una dimostrazione degli effetti sconvolgenti dei cambiamenti climatici, ma una ricerca condotta in proposito l’anno successivo ha appurato che non ci sono variazioni reali nelle conseguenze generate da questo tipo di fenomeni [4]. Per il periodo 1970-2008 in 29 paesi europei, è stata esaminata la serie temporale dei dati sulle perdite economiche dovute alle tempeste, omogeneizzando i valori alla situazione del 2008, in ragione dei cambiamenti nella popolazione, nella ricchezza e nell’inflazione (Fig. 5); dall’analisi non è apparsa alcuna tendenza.


Figura 5: Danni causati in Europa dalle grandi tempeste di vento; i dati sono espressi in milioni di dollari e normalizzati alle condizioni del 2008.


Tornado - Per l’Europa (per cui anche per l’Italia), gli studi sistematici sono piuttosto recenti e perciò non c’è una documentazione che consenta delle attendibili valutazioni sull’evoluzione temporale di questi fenomeni; ne deriva che le frequenti informazioni che circolano in merito a presunti aumenti del pericolo dei tornado nel nostro Paese possono sicuramente essere ritenute delle notizie prive di senso scientifico.


Figura 6: Numero totale annuo dei tornado non inferiori alla categoria 1 e di quelli non inferiori alla 3. In questo secondo caso, ho riportato nel grafico i valori medi dei due sottoperiodi 1954-1985 e 1986-2014.


Gli unici archivi dai quali è possibile ricavare delle statistiche utili sono quelli statunitensi, poiché una raccolta regolare dei dati è iniziata già alla metà del XX secolo. Nel sito ufficiale della NOAA (www.ncdc.noaa.gov) è contenuto un resoconto che contiene i grafici riportati nella figura 6 e relativi al numero annuo di tornado di categoria 1/+ e a quello dei tornado violenti, cioè di categoria non inferiore a 3.

L’esame della figura ci dice che nel primo caso non appare una tendenza chiara, e si può notare come la fase di maggiore frequenza ricada nella prima metà degli anni ’70, quando il clima era più fresco rispetto al periodo attuale. Molto significativo l’andamento degli eventi violenti, che mostra una marcata e brusca diminuzione manifestatasi intorno al 1985: fino a tale data si aveva una media annua di 55.8 tornado, mentre si scende a 36.1 per gli anni successivi. Altre ricerche hanno appurato che a tale diminuzione è corrisposto un calo simile nell’entità dei danni subiti dal territorio americano; in pratica, una situazione opposta rispetto alla percezione comune dei fatti in oggetto.


Figura 7: I 150 valori record di pioggia giornaliera, per le serie storiche di De Bilt (Olanda) e Karlsruhe (Germania); i grafici sono reperibili sul sito web di Wetterzentrale.


Piogge intense e alluvioni - In bibliografia si trovano molti lavori pubblicati negli ultimi tempi, che arrivano a risultati spesso non paralleli, facendo sì che le questioni rimangano un po’ controverse.

Per apprezzare i veri ordini di grandezza delle cose in gioco, credo sia anzitutto utile partire dal lavoro di Westra del 2013 [5], in quanto è forse il più citato da chi sostiene che si sia verificato un marcato aumento nell’intensità delle precipitazioni. Vengono studiate le tendenze dei massimi di pioggia giornaliera nell’anno, per poi verificare le eventuali correlazioni con l’andamento della temperatura globale; sono utilizzate 8326 stazioni, in base al criterio della disponibilità di almeno 30 valori, nell’intervallo 1900-2009. Nel lavoro si afferma seccamente che: "trend crescenti, statisticamente significativi, possono essere rilevati a scala globale", ma, dalla lettura del testo, si constata che le serie con tendenza significativa sono soltanto il 10.6% del totale (l’8.6% crescenti e il 2.0% in diminuzione); pertanto quasi il 90% delle serie è più o meno stazionario.

Dalla correlazione con le temperature, è scaturito che le piogge estreme considerate aumentano, per 1°C di riscaldamento, di una quantità compresa fra il 5.9 ed il 7.7%; in pratica, sulla base della crescita della temperatura globale, si sarebbe avuto un incremento stimabile attorno al 5.5% al secolo. Anche ammettendo di prendere questi risultati come ben rappresentativi di quanto avvenuto nel ciclo idrologico, un punto mi pare che resti chiaro: non risultano modificazioni nei caratteri pluviometrici che possano aver dato luogo a mutamenti ambientali in pratica apprezzabili.


Figura 8: La localizzazione delle stazioni di misura considerate in due studi di cui nel testo. I simboli esprimono il risultato dell’analisi dei trend lineari delle serie storiche del valore annuo della portata di picco: verde = trend non significativo; blu = decrescente; rosso = crescente.



Un’utile verifica che anche un non esperto può fare in pochi minuti è quella che deriva dalla visita al sito tedesco Wetterzentrale.de, uno dei più noti ed affidabili in campo meteorologico, nella cui sezione dell’archivio dati sono reperibili pure statistiche e diagrammi su estremi climatici, per numerose stazioni della Germania e dell’Olanda.

I grafici della Figura 7 provengono appunto da questa fonte e riportano i 150 maggiori valori di pioggia giornaliera per le serie più lunghe reperibili nei due citati Paesi. Esaminando i rispettivi diagrammi, sarà sufficiente valutare la collocazione temporale dei singoli eventi record e delle fasi nelle quali appare un evidente addensamento delle barre, indicante quindi una maggiore frequenza di episodi intensi. Penso che tutti concorderanno sul fatto che non risalta alcun segnale di cambiamento, soprattutto se inteso nel verso di un incremento dell’intensità. In verità, il grafico di Karlsruhe presenta una concentrazione proprio nella parte iniziale, suggerendo così una possibile tendenza al calo; sicure affermazioni sono però molto problematiche perché in serie così lunghe non si può escludere l’esistenza di qualche problema di omogeneità.


Figura 9: Numero di episodi di piena (per decennio) del Tevere a Roma; è palese la tendenza alla diminuzione.


In Italia la questione delle piogge ha assunto aspetti grotteschi, con la diffusione del ridicolo mito delle bombe d’acqua, ormai interpretate da molti come dei fenomeni del tutto nuovi anche rispetto a pochi decenni or sono. Ovviamente nessuno studio è in grado di confermare simili assurdità ed anzi nel 2019 è uscito un articolo che dovrebbe risultare esaustivo sull’argomento [6].

Un gruppo di ricerca del Politecnico di Torino ha studiato i dati delle piogge annue massime su intervalli di 1-3-6-12-24 ore, per 1346 stazioni del nostro territorio, caratterizzate da avere almeno 30 valori nel periodo 1928-2014. I risultati hanno indicato che solo una percentuale assai ridotta delle suddette serie aveva dei trend significativi, con un numero più o meno equivalente fra quelli positivi e quelli negativi; un quadro generale quindi di perfetta stazionarietà.

Che non siano avvenute delle trasformazioni sensibili nel ciclo idrologico è dimostrato dalle risultanze di numerosi studi sull’andamento delle piene fluviali in tantissimi bacini del globo.

La Figura 8 riporta i risultati di due lavori che complessivamente hanno interessato 198 stazioni di misura in Europa, Stati Uniti e Africa [7, 8]; in netta maggioranza appaiono i bacini con situazione stazionaria, mentre, fra i restanti con trend significativo, sono quelli di segno negativo ad essere i più numerosi. Un esempio riferito all’Italia ci è dato da un libro pubblicato nel 2001, nel quale sono fornite varie statistiche in merito alle piene del Tevere a Roma, dal 1871 alla fine del secolo scorso [9] (Fig. 9); ne emerge una chiara diminuzione della frequenza del fenomeno nel tempo, in netto contrasto perciò con la percezione comune di questo genere di fatti.



Le risultanze degli studi di

climatologia storica sono in

contrasto con la teoria ufficiale


In relazione alle oscillazioni del clima avvenute negli ultimi dodici secoli, è ben noto che sono due le fasi più importanti riconosciute dagli esperti: una calda detta Optimum Climatico Medievale (OCM) ed una successiva fredda, conosciuta come Piccola Età Glaciale (PEG). Sulla loro estensione temporale non vi è un totale accordo fra gli studiosi, anche perché nell’azione delle suddette fasi sussistono differenze geografiche talora sensibili. Comunque, l’OCM si può ritenere che inizi verso il 900 e termini nel corso del XIII secolo; la sua acme pare collocarsi fra il 1100 e il 1150.

Alcuni scienziati ritengono che la PEG prenda corpo poco dopo il 1300 e che quindi segua quasi senza soluzione di continuità il periodo caldo. I secoli XIV e XV risultano in effetti assai più freschi dei precedenti, però con alcuni intervalli, almeno in Europa, piuttosto caldi; è per questo che la prassi più frequente sia quella di parlare di PEG a partire dal 1500 fino poi alla seconda metà dell’Ottocento.

Le variazioni termiche di OCM e PEG sembrano essere state contenute come media globale, anche se è certo che alle latitudini medio-alte dell’emisfero boreale la loro incidenza è stata rilevante. Ad ogni modo, trattandosi comunque di periodi complessivamente di lunghezza polisecolare, credo che si prestino bene per fornire un test in merito ai rapporti fra temperature ed eventi estremi. Voglio cioè dire che, se è vera l’ipotesi che il riscaldamento globale porterà ad un incremento per entità e frequenza di vari fenomeni meteorologici estremi, dovrei anche aver riscontrato un’evidente prevalenza di tali fenomeni nell’OCM (clima caldo) in confronto alla condizione della PEG (clima freddo).


Figura 10: Numero annuo di uragani dal 1749 al 2012.

Figura 11: La frequenza degli eventi alluvionali del Po, negli ultimi due millenni.

In realtà, tutti quelli che sono i riscontri disponibili in merito a questa problematica indicano una situazione diametralmente opposta, con estremi pertanto molto più rari nelle fasi calde, ossia nell’OCM e nel XX secolo, rispetto a quanto evidenziato per la PEG. Di seguito ne fornirò, in modo sintetico, diversi esempi.

Gli uragani nel Golfo del Messico - Un gruppo di ricerca messicano, incrociando le informazioni provenienti da diverse fonti storiche, ha ricostruito la frequenza degli uragani nell’area del Golfo del Messico e del Mar dei Caraibi, a partire dall’anno 1749 [10]; utilizzando poi le statistiche Hurdat (dell’Hurricane Center statunitense), hanno infine ottenuto una serie continua del fenomeno 1749-2012 (Fig. 10). Si osserva un andamento decrescente nel lungo periodo, ma soprattutto è significativo da un lato che il periodo di massimo ricada nella seconda metà dell’Ottocento, quindi nella parte conclusiva della PEG, e dall’altro che i valori dell’ultimo trentennio (global warming recente) siano nel complesso piuttosto bassi.

Le inondazioni del Po - In un lavoro del 1998, il geomorfologo Cortemiglia ha proposto alcune ricostruzioni di climatologia storica relative al territorio italiano [11]. In proposito, la Figura 11, riferita alla frequenza degli eventi alluvionali del Po, ne indica un consistente massimo nella PEG, rispetto a quanto riscontrato per il periodo caldo medievale ed anche per l’ultimo secolo.

Le esondazioni del Tevere a Roma - In una pubblicazione del 2001 già richiamata in precedenza, è anche riportato un grafico relativo al numero di esondazioni del Tevere nella città di Roma, avvenute negli ultimi 2500 anni [9]. Dal X al XIII secolo sono 7 gli episodi rilevati, mentre dal XIV al XIX sono ben 56; nella fase calda del Medio Evo si è avuta quindi una media di circa 1.8 episodi/secolo, a fronte di una di 9.3 nella successiva fresca e poi fredda (Fig. 12). Una differenza talmente forte da implicare necessariamente una marcata diversità nei caratteri pluviometrici, cioè con intensità delle piogge superiore in concomitanza di un clima più freddo.


Figura 13: Date ed entità delle grandi piene del Reno a Basilea, a partire dal 1268.


Figura 14: La frequenza delle piene nel bacino tributario del lago di Allos, nelle Alpi mediterranee francesi, in base a studi degli strati sedimentari depositatisi negli ultimi 1400 anni.

Le piene del Reno a Basilea - Basandosi su misurazioni giornaliere (disponibili dal 1808), e su dati pre-strumentali (documentazioni storiche e segni sugli edifici del livello raggiunto dalle acque di esondazione), è stata valutata l’entità dei maggiori eventi di piena nella città di Basilea, a partire dall’anno 1268 [12]. Sono stati riconosciuti 49 grandi episodi, dei quali 6 classificati come catastrofici (portata massima stimata in oltre 6 mila m3/s) e gli altri 43 come gravi (fra 5 e 6 mila m3/s). Se i sei estremi risalgono tutti a prima del 1700, anche i rimanenti si concentrano in periodi ormai lontani, visto che dopo il 1876 si sono avuti solo i casi del 1999 e del 2007, con un intervallo quindi di ben 121 anni senza piene di rilievo (Fig. 13); in sostanza, una media di un evento importante ogni 13 anni circa prima del 1877, a fronte di due soli episodi nei 134 anni successivi, cioè nella fase del riscaldamento recente. Solo parte di tale marcata differenza può essere addebitata agli interventi di modifica idraulica realizzati nel 1714 e nel 1877 (si veda sempre nella figura 13). In effetti, anche valutando il surplus di portata derivante dal rapportare i valori di picco del 1999 e del 2007 alla situazione antecedente alle modifiche antropiche nel bacino, non si oltrepassano comunque i 5800 m3/s; si è quindi sicuri che tale soglia non sia stata superata da 140 anni a questa parte, a fronte invece di una media di questi eventi nella PEG che, dalle risultanze dell’indagine storica, può essere stimata in circa 3 al secolo. Pertanto, a giudizio degli Autori della ricerca, deve necessariamente essersi anche verificato un consistente cambiamento delle caratteristiche del clima, nel senso di una diminuzione dell’intensità delle piogge.

Le piene nel bacino del lago di Allos - Un gruppo di ricerca francese ha condotto un’indagine geomorfologica basata sullo studio dei sedimenti di fondo dell’Allos, un piccolo lago naturale di montagna (2200 metri di quota), situato nel dipartimento delle Alpi dell’Alta Provenza.

Sono stati classificati 160 strati alluvionali, interpretati come depositi prodotti da fenomeni di piena negli ultimi 1400 anni [13]; non avendo individuato alcuna evidenza di variazioni significative nei meccanismi erosivi del bacino, gli studiosi transalpini hanno così ritenuto che gli strati possano adeguatamente rappresentare la storia dei caratteri pluviometrici della regione, segnalando in pratica le variazioni nella frequenza degli eventi intensi. La figura 14 riassume i risultati della ricerca e mostra come le piene si siano concentrate nella Piccola Età glaciale, rimanendo invece molto rare durante quasi tutto il Medioevo caldo; pure dopo il 1900, cioè nella fase del global warming, il numero appare essere notevolmente basso.

Si tratta di un contributo molto importante, anche perché la considerazione ora fatta deriva dall’uso di proxy data ambientali, che paiono pertanto confermare le informazioni storiche di altri lavori.


Figura 15: Frequenza di eventi estremi in Norvegia.
Gli eventi estremi in Norvegia - In un volume dedicato alla Piccola Età Glaciale [14], viene fornito un quadro dell’occorrenza di varie tipologie di eventi estremi in Norvegia (Fig. 15). La loro frequenza è massima fra il 1650 ed il 1750, cioè in quello che è il periodo che pare, per l’Europa, aver rappresentato l’acme del freddo. In corrispondenza del riscaldamento post 1850, il numero di episodi si riduce drasticamente.

Gli eventi idrologici gravi in Italia negli ultimi 12 secoli - Basandosi sulle informazioni reperibili nei registri documentali storici, è stato ricostruito il più lungo elenco di eventi idrologici devastanti che sia oggi disponibile per l’Italia [15]. Valutandone le caratteristiche, ad ognuno di essi è stato associato un indice quantitativo di gravità, la cui sommatoria relativa ai casi avvenuti in ogni singolo anno (SSIS, Storm Severity Index Sum), ha consentito di disporre di una serie temporale 800-2017. Il suo andamento, riportato nella figura 16, ci dice inequivocabilmente che le tempeste più severe prevalevano nella PEG, mentre durante la fase calda medievale e poi anche in quella del riscaldamento recente l’incidenza degli eventi era inferiore.

I risultati di questa indagine sono in sostanza concordanti con quelli raggiunti in un altro lavoro uscito nel 2000 e mirato a identificare, sempre grazie a fonti storiche scritte, i periodi di maggiore frequenza delle tempeste del Mediterraneo settentrionale, nell’ultimo millennio [16]. Ancora una volta tutta l’attenzione per gli eventi estremi è ricaduta sulla PEG, essendo stato infatti appurato che:
  •  il Mare Adriatico ha avuto due marcate fasi di massimo, corrispondenti alla prima metà del XVI secolo e alla seconda metà del XVIII;
  •  a ovest della nostra Penisola, l’acme per le tempeste è stata nella prima metà del XVII, con altri due massimi relativi nel XV e nell’ultima parte del XVIII secolo.
È assai probabile che qualcuno, dopo aver letto queste note derivanti dagli studi sul clima degli ultimi due millenni, si sia posto la domanda di come la questione che ne emerge - cioè la dicotomia tra le risultanze della climatologia storica da un lato e la teoria ufficiale sugli eventi estremi dall’altro - venga affrontata dall’IPCC. Ebbene, la risposta è semplicissima: il problema è di fatto ignorato nei documenti del Panel.


Figura 16: Andamento lisciato con filtro gaussiano a 11 anni dell’indicatore di gravità degli eventi idraulici dannosi (SSIS) in Italia per il periodo 800-2017. Il diagramma in rosso riporta la situazione di ritiro/avanzamento del ghiacciaio islandese Langjökull.




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Note


[1] S. Pinna: Il cambiamento climatico; la religione del XXI secolo. tab edizioni, Roma (2019)..
[2] R. Lindzen: Straight Talk about Climate Change. Academic Questions, Springer (2017).
[3] P. J. Klotzbach et al.: “Continental U.S. hurricane landfall frequency and associate damage”, Bullettin of American Meteorological Society ? (2018) 1359.
[4] J. I. Barredo: “No upward trend in normalised windstorm losses in Europe: 1970-2008”, Natural Hazards and Earth System Sciences 28 (2010) 97.
[5] S. Westra et al.: “Global increasing trends in annual maximum daily precipitation”, Journal of Climate 26 (2013) 3904.
[6] A. Libertino et. al.: “Evidence for increasing rainfall extremes remains elusive at large spatial scales: the case of Italy”, Geophysical Research Letters 46 (2019) 7437.
[7] D. Bouziotas et al.; "Long-term properties of annual maximum daily river discharge worldwide" European Geosciences Union General Assembly (2011) Vienna.
[8] G. Di Baldassare et al.: “Flood fatalities in Africa: From diagnosis to mitigation”, Geophysical Research Letters 3 (2010) .
[9] M. Bencivenga, P. Bersani; "Le piene del Tevere a Roma, dal V secolo a. C. all’anno 2000", Servizio Idrografico e Mareografico Nazionale, Roma (2001).
[10] B. Rojo-Garibaldi et al.: “Nonlinear analysis of the occurrence of hurricanes in the Gulf of Mexico and the Caribbean Sea”, Nonlinear Processes in Geophysics 25 (2018) 291.
[11] G. C. Cortemiglia: “Il contributo dell’analisi geomorfologica nella ricerca delle cause esplicative dell’evento alluvionale del 6.11.1994 in provincia di Alessandria”, Memorie della Società Geografica Italiana LV (1998) 53.
[12] O. Wetter et al.: “The largest floods in the High Rhine basin since 1268 assessed from documentary and instrumental evidence”, Hydrological Sciences Journal 56 (2011) 733.
[13] B. Wilhelm et al.: “1400 years of extreme precipitation patterns over the Mediterranean French Alps and possible forcing mechanisms”, Quaternary Research 78 (2012) 1.
[14] J. M. Grove: The Little Ice Age. Methuen, Londra (1988).
[15] N. Diodato et al.: “A millennium-long reconstruction of damaging hydrological events across Italy”, Nature - Scientific Reports (2019).
[16] D. Camuffo et al.: “Sea storms in the Adriatic Sea and the Western Mediterranean during the last millennium”, Climatic Change 46 (2000) 209.



Sergio Pinna: è professore ordinario di Geografia all’Università di Pisa, ateneo nel quale è anche docente di Climatologia. I suoi principali interessi di ricerca sono rivolti alla valutazione dei rischi naturali, alle variazioni spaziali e temporali del clima e ai vari aspetti del rapporto fra clima e uomo.

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