Licenza di uccidere persone e territorio?
I
nostri sprechi quotidiani, lo sperpero di risorse energetiche, preziose
perché esauribili, ed un modello di sviluppo incompatibile con gli
equilibri ecologici richiedono una generale e comune presa di coscienza
del baratro verso cui l’umanità si è irresponsabilmente avviata. Non mi
sembra però ammissibile che si sottaccia o sminuisca l’incontestabile
gravità della pressione esercitata dal complesso militare-industriale e
dai tremendi esiti bellici che esso produce su ciò che chiamiamo
‘natura’, mettendo a rischio le stesse condizioni per la sopravvivenza
del genere umano. Da sempre la guerra è di per sé morte, distruzione e
devastazione ambientale…Basi militari, poligoni ed altre installazioni
del genere, anche in situazioni di non conflittualità, sono una costante
bomba ecologica, in seguito alla presenza ed all’utilizzo incontrollato
di sostanze di natura chimica, batteriologica e nucleare anche nelle
esercitazioni. Leggi qui
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1a Guerra Mondiale |
Se
si pensa al significato comune delle parole “ambiente” e “guerra”, si
può avere l’impressione che non abbiano nulla a che vedere l’una con
l’altra. A prima vista, le due nozioni sembrano appartenere a due mondi
separati: la prima evoca immagini di vita e di benessere, la seconda è
immancabilmente legata a pensieri di morte e distruzione. Basterebbe
fermarsi a riflettere per scoprire che esistono molteplici e complesse
interconnessioni fra “ambiente” e “guerra”, anche se ciò traspare
raramente nei dibattiti pubblici e politici in materia. In genere,
infatti, quando si parla di guerra si tende a presentare la situazione
da un punto di vista politico, socio-economico o umanitario, trascurando
gli aspetti ambientali. Allo stesso modo, quando si analizzano gli
impatti delle attività antropiche sui sistemi naturali, difficilmente si
prende in considerazione la realtà militare e bellica, e si focalizza
l’attenzione quasi esclusivamente su quella civile. Eppure, per
preparare le guerre vengono utilizzati fino a 15 milioni di km2 di terra
(più dell’intero territorio dell’Europa) e il 6% del consumo di materie
prime, producendo circa il 10% delle emissioni globali di carbonio
l’anno ( MAchilis e Hanson, 2008).Si tratta solo di alcuni
primi esempi, che spingono a chiedersi quali siano le molteplici
possibili interconnessioni fra ambiente e guerra. La questione richiede
necessariamente una risposta articolata, che tenga conto delle diverse
accezioni con cui si assumono i due termini della relazione.
Nel
tracciare una mappa delle interrelazioni tra ambiente e guerra, si può
partire da una nozione relativamente familiare come quella delle guerre per le risorse naturali.
Da sempre l’umanità ha fatto uso per vivere e per sviluppare le proprie
civiltà delle risorse fornite dal nostro pianeta: risorse gratuite, al
netto di eventuali costi di estrazione e di trasporto, che richiedono
determinati tempi naturali più o meno lunghi per rigenerarsi ed essere
nuovamente disponibili, ma che in alcuni casi non sono rinnovabili.
Tuttavia, l’utilizzo che ne stiamo facendo (in particolare negli ultimi
due secoli, da quando l’industrialismo capitalista e il relativo
consumismo si sono affermati come modello dominante su scala globale,
sia pure con differenze locali e forti squilibri territoriali) non è
compatibile con il loro naturale ritmo di rinnovamento o con la loro
disponibilità limitata, con la conseguenza che le risorse naturali
stanno diventando sempre più scarse.
Questo
porta ad una maggiore competizione per il controllo delle risorse
naturali strategiche fra gruppi politici, intere nazioni, etnie e
multinazionali, che spesso si traduce in sanguinosi conflitti armati
internazionali o in altrettanto sanguinose guerre civili. È ciò a cui
tutto il mondo sta assistendo (e a cui i paesi occidentali stanno
attivamente partecipando) ormai da vent’anni, con le guerre per il
petrolio (dal Golfo nel 1991, alla Libia nel 2011); ma anche con altri
conflitti di cui si sente meno parlare, ma che sono altrettanto cruenti e
dagli effetti devastanti, come le guerre per i diamanti in Africa
centrale, o quelle per l’acqua nel Sud del mondo, in corso da molti
anni.
Un secondo ambito di interrelazione fra ambiente e guerra, di cui si sa e si parla relativamente poco, è quello delle modificazioni dei fenomeni naturali per scopi militari. Con il termine “geoingegneria”
si indica un insieme di interventi di natura antropica volti alla
manipolazione dell’ambiente e dei processi naturali per ottenere certi
effetti desiderati. Già durante la guerra del Vietnam vennero applicati
studi di geo-ingegneria per scopi bellici: durante la cosiddetta
“Operation Popeye” l’aviazione statunitense portò avanti un progetto di
“cloud seeding” (inseminazione di nuvole) diffondendo nei cieli del
Vietnam settentrionale sostanze chimiche che reagissero da condensatori
per la formazione di nubi, con lo scopo di indurre forti precipitazioni
sul territorio nemico (Fleming, 2006). Per contrastare queste pratiche
belliche, nel 1977 le Nazioni Unite hanno ufficialmente adottato una
Convezione sulla Proibizione dell’uso Militare o di Altra Ostile Natura
di Tecniche di Modificazione Ambientale.
Un'arma silenziosa in una guerra silenziosa Le armi silenziose non sono percepite come un attacco da persone normali |
Vi è ancora un altro aspetto da considerare, ed è quello che abbiamo scelto di approfondire: si tratta degli impatti delle attività militari sui sistemi naturali,
che si protraggono non solo durante il conflitto armato, ma già dalla
fase di addestramento e preparazione, fino al periodo post-bellico. Un
articolo pubblicato nel 2008 su BioScience, mensile dell’American Institute of Biological Science,
cita alcuni esempi di questo impatto. Le esercitazioni con fuoco vivo
spesso portano all’accumulo di inquinanti: il fosforo bianco, ad
esempio, è stato associato alla mortalità e riduzione della fertilità in
uccelli acquatici e all’avvelenamento secondario di rapaci. Le indagini
di spiaggiamenti di massa di balene durante le esercitazioni navali
alle Bahamas e alle isole Canarie suggeriscono che sonar ad alta
intensità possono causare un comportamento irregolare, danni ai tessuti
interni, e la mortalità nei cetacei. Il monitoraggio a lungo termine
condotto nell’area dello Hanford Nuclear Reservation, nello stato di
Washington, ha trovato radionuclidi in piante e animali a più di 250 km
di distanza dal sito di produzione; inoltre, particelle radioattive sono
state trovate nei molluschi costieri più di 650 km a valle del fiume
Columbia.
Basi, servitù militari e consumo di suolo
Un
caso che illustra in maniera evidente l’impatto delle basi militari
sull’ambiente è rappresentato dall’Isola di Viesques, nel mar dei
Caraibi che conta circa 10.000 abitanti. Fino al 2003 Vieques è stata,
per 226,05 km2 dei suoi 330 km2 totali, spazio militare statunitense,
con un magazzino di scorte di munizioni composto da 107 edifici, nonché
una pista aerea larga oltre un chilometro e mezzo. Per 60 anni si sono
susseguiti addestramenti, esperimenti, stoccaggi, test e smantellamenti.
L’effetto immediato dei bombardamenti a Vieques è stata la distruzione
di centinaia di specie animali e vegetali, i cui esemplari sono morti
nell’impatto. A lungo andare, questi bombardamenti e manovre militari
hanno portato alla contaminazione di tutto l’ecosistema attraverso gli
agenti chimici della carica esplosiva dei missili, le particelle di
polvere e pietra sollevate in aria come conseguenza del loro impatto ed
esplosione, i residui metallici lasciati dopo la detonazione e la
ferraglia utilizzata per le esercitazioni.
In
Italia una delle zone più interessate da servitù militari è la
Sardegna, alla quale lo Stato italiano sottrae circa il 60% dell’intero
territorio statale per destinarlo ad attività militari. La Regione
ospita il poligono terrestre, aereo e marittimo più grande d’Europa,
Salto di Quirra, che con i suoi 130 km2 a terra e 28.400 km2 a mare
copre più della superficie dell’intera Sardegna.
Tra
i fattori di impatto ambientale delle attività belliche e militari,
oltre alla diretta contaminazione del territorio, va tenuto
prioritariamente in conto anche il consumo di suolo: il terreno
destinato alla presenza militare viene sottratto ad altre attività, e
contribuisce alla cementificazione del territorio, dato che spesso le
strutture vengono costruite ex novo. Ciò determina la perdita, nella
maggior parte dei casi permanente e irreversibile, di suolo fertile. Non
solo: le costruzioni provocano frammentazione del territorio, emissioni
di CO2, riduzione della biodiversità, alterazioni del ciclo
idrogeologico e modificazioni micro-climatiche. Inoltre, la crescita e
la diffusione delle aree militari e delle relative infrastrutture
determinano un fabbisogno maggiore di acqua, trasporti ed energia, con
conseguente aumento delle emissioni di inquinanti atmosferici e di gas
serra.
A questo proposito, per
quanto riguarda i soli Stati Uniti d’America, il Rapporto del
Dipartimento della Difesa del 2010 parla di oltre 539.000 proprietà di
loro gestione e amministrazione, divise in 5.000 siti che coprono un
territorio totale di quasi 115.000 km2.
E questo considerando
solo le costruzioni e gli edifici. Si pensi che tale area corrisponde a
tutto il Nord Italia (comprensivo dell’Emilia Romagna). Sempre per
quanto riguarda gli USA, secondo il Rapporto sull’Energia del 2010 del Department of Defence
(DOD) Statunitense alla fine del 2009 si sono spesi 3,6 miliardi di $
per i consumi energetici delle strutture e 9,6 miliardi di $ in
carburante per veicoli e altre attrezzature. Il rapporto prende in
considerazione anche i consumi di acqua del DOD, che nell’anno 2009
ammontano a circa 2.327 litri per m2 di superficie pavimentabile. Per
quanto riguarda il tipo di carburante utilizzato dai mezzi del DOD, al
primo posto spicca la benzina, seguita da diesel e altri tipi di
combustibili. (ndr e altri rilasci)
ImageArt |
Smaltimento dei rifiuti
Lo U.S. Government Accountability Office,
l’istituzione che esamina i conti dello Stato e controlla come vengono
spesi i soldi per le missioni militari, ha redatto una serie di rapporti
sul sistema di smaltimento dei rifiuti nelle basi militari
statunitensi in missione all’estero, constatando come sia stata comune
la pratica di bruciare rifiuti di ogni genere in fosse comuni. Tra il
settembre 2009 e l’ottobre 2010 alcuni ispettori di questo ufficio hanno
visitato quattro basi militari Usa in Afghanistan per verificare se i
sistemi di smaltimento dei rifiuti corrispondessero alla documentazione
fornita. Hanno trovato che nessuna delle quattro basi rispettava i
regolamenti militari in materia, emanati nel 2009: tutte ad esempio
bruciano i rifiuti di plastica, nonostante sia vietato dai regolamenti e
sia pericoloso per la salute e l’ambiente per le emissioni di diossina e
altre sostanze tossiche che producono. Nell’agosto del 2010 l’US Central Command ha
stimato la presenza di 251 “pozzi” per lo smaltimento di rifiuti in
Afghanistan e di 22 in Iraq, in cui vengono bruciati rifiuti delle basi
militari di ogni tipo.
Materiali bellici. Dalla produzione…
Un
discorso a parte meritano gli armamenti necessari per la preparazione
alla guerra. Seguendo l’approccio della Valutazione del Ciclo della Vita
(Life Cycle Assessment, LCA) dei materiali bellici, possiamo
identificare diversi tipi di impatto in base al diverso momento
considerato. Innanzitutto va messa in conto l’estrazione delle materie
prime, che ha come effetto principale il loro progressivo esaurimento,
il consumo di energia e secondo i casi anche di acqua, necessaria per
abbattere i livelli di polveri in sospensione derivanti dal processo
estrattivo. In alcune circostanze, inoltre, i residui derivanti dalle
estrazioni minerarie possono contenere componenti chimici pericolosi per
l’ambiente e la salute dell’uomo, a cui si aggiungono sostanze come il
piombo, il cadmio o l’amianto presenti nelle rocce e liberati dal
processo estrattivo. Il materiale estratto viene poi trasportato nelle
industrie addette alla raffinazione e lavorazione, che producono
ulteriori scarti ed emissione di inquinanti. Nelle varie fasi, inoltre,
il materiale e i componenti delle armi sono imballati, con ulteriore
consumo di materiali e produzione di rifiuti. Il trasporto nei diversi
passaggi della lavorazione, nonché nella fase di vendita e consegna del
prodotto finale, avviene per lo più su gomma, con tutte le ripercussioni
di impatto ambientale dovute ai mezzi.
Passando
alla fase di utilizzo, durante le esercitazioni e i combattimenti le
armi rilasciano sul terreno residui che possono essere dannosi per
l’ambiente e per gli esseri viventi. Le cartucce e le munizioni, ad
esempio, sono composte da ottone, alluminio, plastica e ferro. La
polvere da sparo, invece, può essere composta da vari tipi di materiali
miscelati tra loro in proporzioni differenti in base all’uso che se ne
vuole fare. I materiali principali utilizzati sono il nitrato di
potassio, lo zolfo e la carbonella di legna. Al posto degli ultimi due è
possibile utilizzare farine di prodotti plastici e/o fosforo. Nei mezzi
corazzati vi è un notevole utilizzo di ferro, plastica, alluminio e
componenti elettriche. Tutte sostanze che oltre una certa concentrazione
provocano seri danni allo stato dell’ambiente e alla salute degli
esseri viventi.
…allo smaltimento
Numerosi
sono poi i problemi nella fase di dismissione delle armi. Come abbiamo
visto, infatti, esse sono costituite da materiali difficili da smaltire.
Inoltre, raramente ci sono dei programmi e delle procedure in territori
di guerra che prevengano danni ambientali. Questo vale a maggior
ragione per i rifiuti particolarmente pericolosi e tossici, come quelli
costituiti dalle armi chimiche. Secondo un articolo di Peter Brewer e
Noriko Nakayama del 2008, grandi quantità di armi chimiche sono state
gettate in mare e si sono depositate sui fondali del mare, costituendo
un pericolo per la flora e la fauna marina, nonché per i pescatori e
coloro che si imbattono in queste scorie. Dopo la seconda guerra
mondiale, infatti, molti Paesi hanno scaricato queste armi ormai
obsolete sul fondo del mare. Questa pratica è certamente avvenuta
nell’Oceano Atlantico, nel Mare del Nord, nel Mar Baltico e nel Mar
Mediterraneo, ma probabilmente si è verificato anche in altre acque.
Tuttavia, i documenti che segnalano cosa è stato gettato, e dove, sono
inesistenti o superficiali (Bryant, 2011).
Oltre
alle sostanze pericolose contenute nelle armi, bisogna considerare che
quando questi agenti tossici sono esposti all’acqua di mare, possono
reagire formando ulteriori sostanze nocive. Ad esempio, la lewisite ldegradandosi può rilasciare arsenico vicino ai siti di smaltimento.
Un esempio storico: l’utilizzo dell’Agente Arancio in Vietnam
Uno
dei casi più studiati e drammaticamente rinomati di danni ambientali
dovuti a conflitti armati è quello della guerra del Vietnam. Fra il 1962
e il 1971, durante l’Operazione “Ranch Hand”, l’esercito americano
scaricò per via aerea circa un centinaio di milioni di litri di erbicidi
sulle foreste del Vietnam, del Laos orientale e della Cambogia.
L’obiettivo era sfoltire la copertura vegetazionale in modo da poter
colpire più agevolmente i bersagli e le truppe vietnamite che
sfruttavano la foresta per nascondersi, e allo stesso tempo indebolire
il nemico danneggiandone i raccolti (Buckingham, 1983). Le sostanze
utilizzate assunsero comunemente il nome del colore delle taniche in cui
erano contenute. Il più utilizzato fu l’Agente Arancio (Figura 1):
si tratta di un composto chimico ottenuto da una miscela in parti
uguali di due sostanze (il 2,4,5-T – acido 2,4,5-triclorofenossiacetico,
e il 2,4-D – acido 2,4-diclorofenossiacetico) normalmente innocue per
l’uomo. Tuttavia, nel processo produttivo, una delle due (il 2,4,5-T)
viene contaminata da una diossina fra le più pericolose, la TCDD
(2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina), in Italia tristemente nota per il disastro del Seveso.
Figura 1 Utilizzo dei diversi tipi di defolianti durante la guerra del Vietnam, dal 1962 al 1971 (Stellman, et al., 2003) |
Le
conseguenze ambientali di quest’azione di guerra sono state devastanti.
Si calcola che siano andati perduti almeno 30.000 km2 di foresta
(un’area corrispondente a quella costituita da Piemonte e Liguria
insieme), sia per l’effetto diretto dei defolianti, sia a causa della
degradazione del suolo, che in seguito alla scomparsa della copertura
vegetazionale è stato esposto ai processi erosivi che lo hanno privato
delle sostanze nutritive fondamentali per la ricrescita delle piante (Figure 2 e 3).
Con la distruzione della foresta, gli ecosistemi locali hanno subito un
forte impatto, con una significativa perdita di biodiversità vegetale e
animale (Chiras, 2009).
Figure 2 |
Figure 3 Foto aeree di due zone della foresta in Vietnam prima e dopo l’utilizzo dei defolianti, 1970 (Associated Press) |
Non
è tutto: la deforestazione rappresenta solo una parte dei danni
ambientali riconducibili al massiccio utilizzo di defolianti nella
guerra in Vietnam. Come già accennato, tali composti sono contaminati da
una diossina, la cui cancerogenicità è riconosciuta dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità. Esami effettuati sui suoli trattati hanno
riscontrato altissime concentrazioni di diossina TCDD, anche a decenni
di distanza: nel 2009 (dunque quasi 40 anni dopo la fine della guerra)
alcuni studiosi della Hatfield Consultants hanno effettuato analisi sui
suoli della località di Da Nang (un’area fortemente colpita durante la
guerra), riscontrando un livello di diossina che supera di circa 300-400
volte i limiti fissati dall’Agenzia di Protezione Ambientale degli USA.
Le conseguenze sono gravissime per tutte le specie che abitano tali
territori, e in particolare per le persone. Nel tempo infatti la
diossina, percolando nei suoli e tramite l’azione delle piogge,
raggiunge e avvelena le risorse idriche sotterranee e di superficie,
diffondendosi in modo capillare nell’ambiente e introducendosi nella
rete trofica.
Quando
gli animali (uomo compreso) si alimentano di cibo (vegetale o animale)
contaminato, la diossina si accumula nei loro tessuti lipidici, con
significativi aumenti delle concentrazioni man mano che si avanza lungo
gli anelli della catena alimentare, per il fenomeno della
“biomagnificazione”. Si è visto ad esempio che gli abitanti di alcune
regioni vietnamite hanno dei livelli di diossina nel sangue decine di
volte più alti del normale (Minh et al.,2009). Negli animali e
nell’uomo, già dopo brevi esposizioni, la diossina TCDD può causare
gravi lesioni cutanee e disfunzioni dell’attività epatica; in casi più
gravi si registrano danni al sistema immunitario e alle funzioni
riproduttive, l’insorgenza di tumori e malattie come il diabete, aborti
spontanei negli adulti, malformazioni congenite nei neonati. Secondo le
stime della Croce Rossa vietnamita le persone colpite sono state circa
4,8 milioni, di cui 3,8 milioni deceduti, e almeno 150 mila neonati
malformati.
Oggi
sono moltissimi gli individui e le associazioni che si occupano di
recupero dei territori colpiti e di assistenza ai malati, ma solo da
pochi anni i governi internazionali si stanno muovendo in questa
direzione: nel biennio 2010-2011 sono state avviate due campagne di
decontaminazione. La prima, promossa dalle Nazioni Unite, prevede una
spesa di 5 milioni di $ per l’area di Ho Chi Minh; la seconda, portata
avanti in collaborazione con gli USA, si concentrerà sulla zona di Da
Nang e avrà un costo stimato di circa 32 milioni di $. Considerato che
si tratta di solo due delle decine di punti critici individuati sul
territorio vietnamita, è evidente che un adeguato piano di azione
richiede un impegno ben maggiore (The Aspen Institute).
L’elenco
dei casi, e dei loro effetti devastanti, potrebbe continuare ancora a
lungo, arrivando fino alle guerre contemporanee. Considerate le
sistematiche lacune di informazione e di comunicazione su queste
tematiche appare doveroso promuovere una riflessione critica, non solo
sulla reale “utilità” della guerra a risolvere le controversie
internazionali e i conflitti interni agli stati, ma sugli effetti che
l’intero apparato bellico, prima dopo e durante il suo impiego, ha sulla
salute dell’ambiente e degli esseri viventi. Affrontare in maniera
critica questo discorso significa anche svelare e contestare la fitta
rete degli interessi pubblici e privati che sostengono oggi come ieri la
spesa militare e denunciare, proprio in tempo di crisi, l’insensatezza e
l’insostenibilità di un modello economico che ancora vede nella
produzione e nella vendita di armi una leva per la “crescita”, quando è
solo una fonte di enormi profitti per alcuni gruppi.
Gli
effetti ambientali delle guerre rappresentano dunque un tassello di un
puzzle complesso. Iniziare ad unire le varie componenti significa
adottare una visione ampia e completa, base per una critica consapevole e
una costruzione alternativa.
Riferimenti bibliografici
The Aspen Institute, Declaration of Plan Action, U.S. – Vietnam Dialogue Group on Agent Orange/Dioxin 2010-2019, Washington and Hanoi, June 2010.
Bryant, D. L., “Disposal of Chemical Weapons at Sea”, Maritime Reporter and Marine News Magazines, 20 aprile 2011.
Buckingham, W. A. Jr., “Operation Ranch Hand: Herbicides In Southeast Asia”, Air University Review, July-August 1983.
Chiras, D. D., Environmental Science – 8° ed., Jones & Bartlett Publishers, London, 2009, p. 22.
Fleming, J. R., “The pathological history of weather and climate modification: Three cycles of promise and hype”, Historical Studies in the Physical and Biological Sciences, vol. 37, n. 1, 2006, pp. 3-25.
Machlis, G. E. e Hanson, T., “Warfare Ecology”, BioScience, vol. 58, n. 8, settembre 2008, pp. 729-736.
Minh, N. H. et al.,
“Comprehensive Assessment of Dioxin Contamination in Da Nang Airbase
and Its Vicinities: Environmental Levels, Human Exposure and Options for
Mitigating Impacts”, Interdisciplinary Studies on Environmental Chemistry — Environmental Research in Asia, TERRAPUB, 2009, pp. 21-29.
Stellman, J. M. et al., «The extent and patterns of usage of Agent Orange and other herbicides in Vietnam», Nature, vol. 422, 17 aprile 2003, pp. 681-687.
Di Elena Gasparri e Lidia Larecchiuta su http://scienzaepace.unipi.it
FONTE http://www.unaqualunque.org/a/2739/il-gioco-del-potere-ambiente-e-guerra-uninterrelazione-rimossa.aspx
FONTE http://www.unaqualunque.org/a/2739/il-gioco-del-potere-ambiente-e-guerra-uninterrelazione-rimossa.aspx
La guerra e la distruzione dell’ambiente
LE BOMBE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE HANNO PROVOCATO DANNI ALL’ ATMOSFERA
E DAVVERO LA CO2 E’ IL GRANDE PROBLEMA?
ALLORA…
Vi segnaliamo questo documentario dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che ha qualche anno, ma purtroppo è ancora attualissimo. E’ la porta d’ingresso per un mondo sommerso che è pieno di bombe ad orologeria. Bombe per tutti i gusti, armi chimiche e tanto altro. Arsenali bellici sommersi che, anche se inesplosi, possono fare (e spesso già fanno) dei danni ingenti ai nostri ecosistemi.
Fonte: NoGeoingegneria
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