By Donato Barone on Mag 31, 2016
Da
anni gli scienziati discutono circa l’influenza dei raggi cosmici sul
processo di nucleazione, ovvero sulla parte iniziale della catena di
eventi che porta alla formazione delle nuvole. Secondo la teoria
corrente il processo di nucleazione è fortemente legato alla presenza
atmosferica di acido solforico stabilizzato da tutta una serie di
molecole organiche come le ammine, o inorganiche come l’ammoniaca. Si
presume, infatti, che in assenza di tale composto chimico il processo di
nucleazione non possa avvenire. Appare scontato, pertanto, che variando
la concentrazione di acido solforico in atmosfera, deve variare anche
il tasso di nucleazione e, quindi, la copertura nuvolosa del pianeta.
Il gruppo guidato da J. Kirkby, impegnato nell’esperimento CLOUD
presso il CERN di Ginevra, ha pubblicato su Nature uno studio (da ora
Kirkby et al., 2016) in cui questa teoria viene messa in crisi: il
processo di nucleazione può avvenire anche in assenza di acido solforico
ed è fortemente influenzato dai raggi cosmici.
Gli autori hanno ricreato in una camera particolare le condizioni in
cui si generano i nuclei di condensazione delle nuvole ed hanno potuto
constatare che anche in assenza di acido solforico, possono generarsi
nuclei di condensazione a partire dalla nucleazione di vapori
atmosferici relativamente ricchi di molecole di origine organica come,
ad esempio, il cosiddetto α-pinene o monoterpene che di tali composti è
quello più abbondante.
Si tratta di un composto chimico che viene generato dalle foreste e
che si concentra nella fascia atmosferica in cui avviene la nucleazione
e, successivamente, la formazione dei nuclei di condensazione. Le
molecole di α-pinene da sole non sono assolutamente in grado di
giustificare quantitativamente il processo di nucleazione, ma le cose
cambiano quando ci si trova in presenza di ioni, ovvero di particelle
elettricamente cariche di origine cosmica. Tali particelle che
costituiscono i cosiddetti raggi cosmici galattici (GCR), sono in grado
di modificare profondamente la velocità di nucleazione: i risultati
sperimentali dimostrano che tale velocità aumenta di uno o due ordini di
grandezza in presenza di ioni rispetto ad una situazione neutra, cioè
in assenza di particelle elettricamente cariche. La cosa si giustifica,
da un punto di vista fisico, con la maggiore velocità di interazione
tra le particelle cariche ed i composti volatili rispetto a quella tra
particelle neutre e composti volatili. Detto in altri termini i raggi
cosmici svolgono per i composti volatili biogeni lo stesso ruolo
stabilizzante che le ammine svolgono per l’acido solforico. Questo
accade, però, solo se le particelle di origine biologica sono presenti
in concentrazioni inferiori ad una certa soglia: quando la soglia viene
superata la nucleazione neutra e quella ionica coincidono.
I risultati di questo studio mettono in discussione buona parte dei
risultati ottenuti dalla scienza del clima in quanto ridimensionano
l’influenza antropica sui cambiamenti climatici. Oggi si è dell’avviso
che la concentrazione atmosferica di acido solforico è il principale
fattore che determina la quantità di nuclei di condensazione e che gli
ioni siano un fattore secondario del processo di nucleazione. In epoca
industriale gli esseri umani hanno immesso in atmosfera immense quantità
di inquinanti tra cui acido solforico. La concentrazione di questo
composto è fortemente aumentata dopo l’avvio dell’era industriale e le
piogge acide che hanno arrecato danni anche gravi alle foreste del
nord-emisfero nel corso del 19° e, soprattutto, 20° secolo, ne sono una
prova evidente. L’influenza antropica appare quindi evidente. Secondo i
risultati di Kirkby tale influenza deve essere ridimensionata in quanto
gli attuali modelli che spiegano la formazione delle nubi non tengono
nel giusto conto il peso degli ioni. Secondo le stime di Kirkby et al,
2016 la capacità di nucleazione dei composti volatili biogeni è
confrontabile con quella dell’acido solforico. Questo a patto che le
molecole di origine biologica siano stabilizzate dai raggi cosmici.
Poiché questi ultimi vengono modulati dall’attività solare appare
evidente il ruolo del Sole nel determinare il clima terrestre in modo
indipendente dal valore della TSI (Total Solar Irradiance).
Il meccanismo illustrato è in grado di giustificare la nucleosintesi
anche in aree caratterizzate da basse concentrazioni di acido solforico
come, per esempio, l’atmosfera al di sopra della foresta amazzonica.
Alla luce dei risultati sperimentali sembrerebbe che i modelli climatici
sottostimino la copertura nuvolosa in epoca pre-industriale in quanto
l’atmosfera di quel periodo storico viene considerata “incontaminata”.
Secondo Kirkby et al., 2016 la copertura nuvolosa in epoca
pre-industriale non doveva essere molto diversa da quella attuale per
cui l’effetto albedo connesso alle nuvole della Terra pre-industriale
non era molto diverso da quello attuale.
Secondo la vulgata comune poiché in tale epoca la temperatura globale
era inferiore a quella attuale anche in presenza di un albedo minore,
il forzante radiativo antropico assume valori molto alti. Ciò non appare
congruente, però, con i risultati di Kirkby et al., 2016 in quanto,
rendendo confrontabile l’albedo pre-industriale con quello attuale, la
componente positiva del forzante radiativo di origine antropica ne
risulta ridotta.
Tale fatto si comprende meglio se si considera che la variazione
della temperatura globale terrestre è esprimibile mediante la seguente
relazione 1
dTs = a dF (1)
in cui
- dTs è la variazione di temperatura in un dato periodo,
- a è la sensibilità climatica
- dF è la variazione del forzante radiativo globale o totale.
La variazione della temperatura globale nel periodo compreso tra il
1750 ed i giorni nostri è stata oggetto di stima da parte dei
climatologi sulla base di dati di prossimità e di serie di misurazioni
opportunamente omogeneizzate e, quindi, rappresenta un dato del
problema. Gli altri due parametri che compaiono nella formula sono
oggetto di discussione nell’ambito della comunità scientifica e nel
mondo che gira intorno ad essa (questo blog, per esempio). La
sensibilità climatica, di cui mi sono occupato da poco in un altro post
pubblicato su CM, si considera un valore costante e viene determinato
principalmente come output dei modelli matematici di simulazione del
clima. Il forzante radiativo viene stimato dai ricercatori sulla base di
considerazioni fisiche che coinvolgono l’equilibrio radiativo
terrestre. Sulla scorta dei dati dell’esperimento ERBS, opportunamente
corretti per tener conto delle fluttuazioni cui il forzante è soggetto,
esso è pari a circa 2,1 Wm-2.
Il forzante radiativo nell’ipotesi del cambiamento climatico di
origine antropica è quasi esclusivamente dovuto alle azioni dell’uomo ed
è costituito da due componenti: una componente positiva o “riscaldante”
ed una componente negativa o “raffreddante”. Nella prima dobbiamo
inserire il forzante radiativo legato ai gas serra come la CO2 o
il colore scuro della superficie terrestre; nella seconda possiamo
inserire l’albedo (delle nuvole o dei ghiacciai) e l’effetto schermante
degli aerosol. Secondo IPCC (AR5, S.P.M. pag. 17) il forzante radiativo
totale di origine antropica per il 2011 rispetto al 1750 è 2,29
[1,13-3,33] Wm-2, quindi di poco diverso dal valore misurato.
Sempre dalla stessa fonte si individua la componente negativa del
forzante radiativo dell’effetto totale degli aerosol in atmosfera, che
include anche le alterazioni delle nuvole causate dagli aerosol: essa è
di -0,9 [da -1,9 a -0,1] Wm-2. Dai dati precedenti si vede che la componente negativa del forzante radiativo è aumentata (in valore assoluto) di quasi 1 Wm-2
rispetto al 1750. Sulla scorta dei risultati di Kirby et al., 2016 la
componente negativa del forzante radiativo deve essere rivista al
ribasso (in valore assoluto). Ciò comporta che il forzante radiativo
totale aumenta e qui cominciano i problemi.
Tenendo presente l’equazione (1) ed in particolare il 2° membro, si
vede che in presenza di un aumento della variazione del forzante
radiativo deve diminuire la sensibilità climatica. Se consideriamo
costante la sensibilità climatica deve diminuire, invece, il forzante
radiativo. Detto in altri termini devono essere ridotte le componenti
positive che lo determinano. In entrambi i casi un bel grattacapo.
Tutto questo sulla scorta di un esperimento condotto in una camera
opportunamente strumentata e con atmosfera molto particolare. Nella
realtà le cose sono piuttosto diverse dalle asettiche condizioni
sperimentali del CERN, per cui Kirkby et al., 2016 è del parere che i
risultati sperimentali devono essere suffragati da indagini in sito per
verificarne la bontà. Gli autori suggeriscono anche una possibile
soluzione del problema: indagare le aree caratterizzate da bassissime
concentrazioni di acido solforico ed altri inquinanti come le foreste
amazzoniche e quelle delle alte latitudini.
Sembra che qualcuno lo abbia fatto e, in buona sostanza, abbia confermato le conclusioni di Kirkby et al., 2016.
Questa è, però, un’altra storia.
Nota.
(1) – G. Maracchi – I cambiamenti del clima e gli eventi estremi:
prospettive. In: Cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile – G.F.
Cartei (a cura di) – G. Giappichelli Editore Torino – 2013
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