Il clima cambia anche naturalmente: ordunque, finalmente!
E’ stato recentemente pubblicato su Climate Dynamics un articolo molto interessante dal titolo “Quantifying the importance of interannual, interdecadal and multidecadal climate natural variabilities in the modulation of global warming rates”[1] elaborato da un gruppo di studiosi cinesi guidati da Meng Wei e Fangli Qiao che, aggiungerei finalmente, sgombra il campo da dubbi e perplessità su un tema veramente scottante per chi si occupi di comprendere quali siano i meccanismi che operano dietro l’incremento delle temperature medie globali.
Già, perché, al di là delle polemiche sull’hockey stick (a tal
proposito sarebbe interessante approfondire la notizia di queste ultime
settimane che ci narra di un Mann che avrebbe perso la causa per
diffamazione contro il dott. Ball in quanto non ha presentato, come
richiesto dalla Corte, i dati con cui ha stimato l’hockey stick stesso),
come noto, dopo un rapido incremento nel periodo 1975-1997 le
temperature globali hanno presentato un andamento sempre crescente,
vero, ma con un tasso molto più basso, al limite della stazionarietà: è
il periodo indicato come “hiatus”, iniziato nel 1998 e conclusosi nel
2013, che i modelli climatici faticano a simulare.
Secondo Wei M. e gli altri, la causa è da ricercare nella confusione
esistente, in tali modelli, tra i trend provocati dall’azione antropica e
quelli causati da variabilità intrinseche del sistema clima.
In particolare gli autori hanno analizzato due set di serie storiche di temperature globali:
- 6 serie storiche relative al sistema combinato terra/oceani: “BEST” della Berkeley Earth, “GISS” della NASA/GISS, “HadCRUT4” del Met Office Hadley Centre, “HadCRUT4krig” elaborato da Cowtan and Way (2014), “JMA” dal JMA, e “MLOST” del NOAA/NCEI;
- 6 serie storiche relative all’andamento della temperatura superficiale degli oceani (SST): “COBE-SST” e “COBE-SST2” dal JMA, “ERSST5” da NOAA/NCEI, “HadISST” e “HadSST3” dal Met Office Hadley Centre e “ICOADS3” dal NOAA/NCEI.
Per ciascuno dei 12 dataset hanno calcolato le anomalie mensili rispetto alla media 1981-2010. Infine, hanno analizzato ciascuno di questi 12 set di valori di
anomalia di temperatura mediante un metodo relativamente recente
(proposto da Norden E. Huang nel 1998[2]) che permette di analizzare serie storiche anche non stazionarie e non lineari[3] (proprio come quelle in oggetto): tale metodo è l’EMD[4],
cioè Empirical Mode Decomposition ed è basato sulla decomposizione del
segnale originario in una serie di funzioni dette IMF (Intrinsec Mode
Function) che rappresentano le differenti modalità di oscillazione
intrinseca del segnale stesso: in particolare la serie originaria viene
scomposta come somma di tante funzioni IMF (mediante una particolare
tecnica di “sifting” cioè di “passaggio al vaglio”) ciascuna delle quali
caratterizzata da frequenza variabile nel tempo ed ampiezza anch’essa
variabile ma con media nulla, oltre a una funzione “residua” che
rappresenta il trend di lungo periodo presente.
Gli autori, quindi, sulla base di questa tecnica decompongono
ciascuna delle 12 serie di anomalie di temperatura in otto IMF e una
funzione residuo:
- le IMF 3, 4 e 5 sommate insieme rappresentano le “oscillazioni ad alta frequenza”, cioè le variabilità naturali inter-annuali denominate IAV;
- la IMF 7 rappresenta la variabilità naturale a frequenze più basse delle precedenti, cioè inter-decadali, denominata IDV;
- la IMF 8 rappresenta la variabilità naturale a più bassa frequenza, cioè multi-decadale, denominata MDV;
- il residuo, infine, rappresenta il trend secolare (ST).
Per ciascuna serie storica analizzata, la somma IAV+IDV+MDV+ST ha
dimostrato di ricostruire in ottimo accordo la serie storica originaria
stessa.
Più interessante è invece investigare il significato fisico di queste
variabilità naturali. Mentre, infatti, il ST si identifica con il trend
indotto dal forcing antropico, le altre tre modalità chiave di
oscillazione sono determinate, secondo gli autori, da fenomeni
oscillatori climatici a scala globale: l’ENSO 3.4, la PDO e l’AMO.
In particolare, gli autori dimostrano, analizzando i “pattern”
spaziali e temporali delle variabilità naturali desunte dalla
decomposizione delle serie storiche e dei fenomeni oscillatori suddetti,
che:
- la IAV, cioè la variabilità naturale inter-annuale è determinata in gran parte dai cicli dell’ENSO 3.4;
- la IDV, cioè la variabilità naturale inter-decadale, è influenzata dai cicli della PDO e dell’AMO;
- la MDV, cioè la variabilità naturale di lungo periodo, è determinata in gran parte dai cicli dell’AMO.
Dimostrate queste analogie, gli autori hanno calcolato che:
- il trend secolare dovuto al forcing antropico dagli anni ’20 del secolo scorso ad oggi, si è mantenuto grosso modo costante e pari a +0,1 / +0,13 °C/decade;
- la IAV e la IDV hanno determinato lo hiatus 1998-2013 (trend +0,08 °C/decade), a causa del trend negativo che hanno mostrato in quegli anni (-0,06 °C/decade e -0,05 °C/decade rispettivamente), nonostante i trend positivi di ST (+0,13 °C/decade) e MDV (pari a +0,05 °C/decade);
- l’alto tasso di crescita della temperatura media globale nel periodo 1975-1998 (trend +0,16 °C/decade) non è stato quindi, causato soltanto dal forcing antropico (che ha contribuito con +0,11 °C/decade) ma anche dalla variabilità naturale di lungo periodo, l’MDV, che ha presentato un trend di +0,05 °C/decade, con le altre variabilità naturali a trend nulli.
Visto che l’AMO è in procinto di passare in fase negativa è
plausibile prevedere un nuovo hiatus del riscaldamento globale nei
prossimi decenni, a meno di eventi di NINO 3.4 particolarmente intensi.
Insomma, gli autori di questo interessante paper hanno dimostrato ciò
che chiunque dotato di cervello, ed etica, aveva da sempre sostenuto:
l’andamento non stazionario e non lineare delle temperature medie
globali, oltre che dal forcing antropico, è determinato da altre
variabilità naturali. In particolare, secondo il paper stesso, esistono
almeno tre variabilità a frequenze differenti: inter-annuali,
inter-decadali e multi-decadali determinate in gran parte dall’ENSO 3.4,
dalla PDO e dall’AMO (sarebbe interessante, aggiungo, io valutare
analogie di queste variabilità naturali anche con i cicli solari).
Non tenerne conto nei modelli climatici, basati in prevalenza sul
forcing antropico, produce l’incapacità degli stessi di ricostruire
eventi di bassa crescita del riscaldamento come lo hiatus 1998-2013
conducendo, quindi, a potenziali previsioni distorte anche sui trend
futuri.
______________________________________
[2]
N. E. Huang, Z. Shen, S. R. Long, M. L. Wu, H. H. Shih, Q. Zheng, N. C.
Yen, C. C. Tung, and H. H. Liu. The empirical mode decomposition and
hilbert spectrum for nonlinear and nonstationary time series analysis.
Proc. Roy. Soc. London A, 454, 903–995, 1998.
[3]
a differenza della “trasformata di Fourier” che richiede che il segnale
da analizzare sia stazionario, lineare e scomponibile in una serie di
sinusoidi
[4] In particolare nello studio è stata utilizzata una sua variante denominata EEMD, ovvero: Ensamble Empirical Mode Decomposition
Fonte: ClimateMonitor
Fonte: ClimateMonitor
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