mercoledì 23 ottobre 2019

Tutto quel che vi hanno nascosto sull’operazione turca “Fonte di pace”

 
 


Tutte le guerre implicano un processo di semplificazione: su un campo di battaglia ci sono soltanto due schieramenti, ognuno deve scegliere il proprio. In Medio Oriente, dove esiste un incredibile numero di comunità e ideologie, il processo è particolarmente travagliato: la specificità di ognuno di questi gruppi non ha più modo di esprimersi e tutti sono costretti ad allearsi con qualcun altro, che tuttavia condannano.
Quando una guerra è al termine, tutti cercano di cancellare i crimini commessi volontariamente o involontariamente, nonché, talvolta, di far sparire alleati scomodi, che si è desiderosi di dimenticare. Molti tentano di ricostruirsi un passato per rendere immacolata la propria immagine. A questo stiamo assistendo con l’operazione turca Fonte di pace alla frontiera siriana e con le inaudite reazioni che suscita.
Per capire quanto sta accadendo non basta sapere che tutti stanno mentendo. Bisogna anche scoprire ciò che nascondono e prenderne atto, anche se chi ha sinora riscosso la nostra ammirazione si rivela un bastardo.


Genealogia del Problema

Se si prestasse fede al racconto dei media europei, si potrebbe pensare che i turchi cattivi stanno sterminando i kurdi buoni, che invece i saggi europei tentano di salvare, malgrado gli spregevoli statunitensi. Ebbene, queste potenze non svolgono il ruolo che si attribuisce loro.
Innanzitutto è opportuno ricollocare gli avvenimenti attuali nel contesto della “Guerra contro la Siria”, di cui non sono che una battaglia, nonché in quello del “Rimodellamento del Medio Oriente Allargato”, di cui il conflitto siriano è solo una tappa.

In occasione degli attentai dell’11 settembre 2001, il segretario della Difesa USA, Donald Rumsfeld, e il nuovo direttore della Trasformazione della Forza, ammiraglio Arthur Cebrowski, adeguarono la strategia del Pentagono al capitalismo finanziario. Decisero di dividere il mondo in due zone: l’area della globalizzazione economica e l’area da considerare come semplice riserva di materie prime. Le forze armate USA avrebbero dovuto distruggere le strutture statali di questa seconda regione del mondo, affinché nessuno potesse opporre resistenza alla nuova divisione del lavoro [1]. Si cominciò con il Medio Oriente Allargato.
Nel 2003, dopo la distruzione di Afghanistan e Iraq, doveva essere la volta della Siria (Syrian Accountability Act), ma parecchi imprevisti richiesero il rinvio dell’operazione fino al 2011. Il piano d’attacco fu riorganizzato, tenendo conto dell’esperienza coloniale britannica nella regione. Londra consigliò di non distruggere completamente gli Stati, di ripristinare uno Stato minimale in Iraq e di mantenere in piedi governi fantocci in grado di amministrare la vita quotidiana delle popolazioni. Sull’esempio della Grande Rivolta Araba del 1915 di Lawrence d’Arabia, occorreva organizzare una “Primavera araba” per issare al potere la Confraternita dei Fratelli Mussulmani, al posto di quella dei wahabiti [2]. Si cominciò col rovesciare i regimi filo-occidentali di Tunisia ed Egitto, poi si attaccarono Libia e Siria.
In un primo tempo la Turchia, membro della NATO, si rifiutò di partecipare alla guerra contro la Libia – suo primo cliente – e contro la Siria, con cui aveva creato un mercato comune. Il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, ebbe l’idea di prendere due piccioni con una fava. Propose all’omologo turco, Ahmet Davutoğlu, di risolvere insieme la questione kurda, in cambio dell’entrata in guerra della Turchia contro Libia e Siria. I due ministri firmarono un Protocollo segreto in cui si prevedeva la creazione di un Kurdistan, non nei territori kurdi della Turchia, bensì in quelli aramaici e arabi della Siria [3]. La Turchia, che è in ottimi rapporti con il governo regionale del Kurdistan iracheno, mirava alla creazione di un secondo Kurdistan per mettere fine all’indipendentismo kurdo sul proprio territorio. L’interesse della Francia, che nel 1911 aveva reclutato tribù kurde per reprimere i nazionalisti arabi, era creare nella regione un Kurdistan-marionetta, allo stesso modo in cui i britannici riuscirono a creare una colonia ebrea in Palestina. Francesi e turchi ottennero il sostegno degli israeliani, che controllavano già il Kurdistan iracheno tramite il clan Barzani, ufficialmente membro del Mossad.


In marrone chiaro, il Kurdistan disegnato dalla Commissione King-Crane, convalidato dal presidente USA Woodrow Wilson e adottato nel 1920 dalla Conferenza di Sèvres.

 I kurdi sono in origine un popolo nomade (questo è il significato del termine “kurdo”) che si spostava nella valle dell’Eufrate, in Iraq, nella Siria e nella Turchia attuali. Organizzato non in tribù bensì in clan, e noto per il proprio coraggio, diede origine a numerose dinastie – fra cui quella di Saladino il Magnifico – che regnarono nel mondo arabo e persiano, e fornì truppe suppletive a numerosi eserciti. All’inizio del XX secolo, dei kurdi furono reclutati dagli ottomani per massacrare le popolazioni non-mussulmane di Turchia, in particolare gli armeni. Questi kurdi si sedentarizzarono in seguito in Anatolia, gli altri invece rimasero nomadi. Alla fine della prima guerra mondiale, il presidente statunitense Woodrow Wilson, in applicazione del paragrafo 12 dei 14 punti del suo famoso discorso (gli scopi della guerra), immaginò un Kurdistan sulle rovine dell’Impero Ottomano. Per delinearne il territorio, inviò sul posto la Commissione King-Crane; nel frattempo i kurdi proseguivano il massacro degli armeni. Gli esperti individuarono una zona in Anatolia e misero in guardia Wilson sulle conseguenze devastatrici di un espansionismo dei kurdi o di uno spostamento dal territorio loro destinato. L’Impero Ottomano fu rovesciato dall’interno da Mustafa Kemal, che proclamò la Repubblica e rifiutò l’amputazione di territorio prevista dal progetto Wilson. Alla fine, il Kurdistan non vide la luce.

Per un secolo i kurdi tentarono la secessione dalla Turchia. Negli anni Ottanta i marxisti-leninisti del PKK avviarono una vera e propria guerra civile, repressa molto duramente da Ankara. Molti kurdi del PKK si rifugiarono nel nord della Siria, protetti dal presidente Hafez al-Assad. Quando il loro leader, Abdullah Öcalan fu arrestato dagli israeliani e consegnato ai turchi, abbandonarono la lotta armata. Alla fine della guerra fredda, il PKK, non più finanziato dall’Unione Sovietica, fu infiltrato dalla CIA e si trasformò: abbandonò la dottrina marxista e divenne anarchico, rinunciando alla lotta contro l’imperialismo e mettendosi al servizio della NATO. L’Alleanza Atlantica fece ricorso alle azioni terroristiche del PKK per contenere l’impulsività di un suo membro, la Turchia.

Nel 1991 la comunità internazionale fece guerra all’Iraq, che aveva invaso il Kuwait. A conclusione della guerra gli occidentali incoraggiarono le opposizioni sciite e kurde a rivoltarsi contro il regime sunnita del presidente Saddam Hussein. Stati Uniti e Regno Unito consentirono il massacro di 200 mila persone, ma occuparono una zona del Paese che vietarono all’esercito iracheno. Ne cacciarono gli abitanti e vi raggrupparono i kurdi iracheni. Dopo la guerra del 2003 questa zona venne integrata nell’Iraq e diventò il Kurdistan iracheno, raccolto attorno al clan Barzani.


La mappa di stato-maggiore del piano Rumsfeld/Cebrowski per il «Rimodellamento del Medio Oriente Allargato».
Fonte: “Blood borders – How a better Middle East would look”, Colonel Ralph Peters, Armed Forces Journal, June 2006.

Agli inizi della guerra contro la Siria, il presidente Bashar al-Assad accordò la nazionalità siriana ai rifugiati politici kurdi e ai loro figli. I kurdi si misero immediatamente al servizio di Damasco per difendere il nord del Paese dagli jihadisti stranieri. Ma la NATO risvegliò il PKK turco e lo spedì a mobilitare i kurdi siriani e iracheni in vista della creazione di un Grande Kurdistan, come prevedeva sin dal 2001 il Pentagono, e come aveva messo nero su bianco la mappa di stato-maggiore, divulgata dal colonnello Ralph Peters nel 2005.


La mappa del «Rimodellamento del Medio Oriente Allargato», modificata dopo lo smacco della prima guerra contro la Siria.
Fonte: “Imagining a Remapped Middle East”, Robin Wright, The New York Times Sunday Review, September 28, 2013.

Questo progetto, imperniato sulla divisione della regione su basi etniche, non collima affatto con quello del presidente Wilson del 1919, finalizzato a riconoscere i diritti del popolo kurdo, né con quello francese, finalizzato a ricompensare i mercenari. Era troppo vasto e difficilmente controllabile. Gli israeliani invece ne erano entusiasti perché vi vedevano uno strumento per contenere la Siria dalle retrovie. Alla fine si dovette prendere atto dell’impossibilità di realizzarlo. L’USIP, un istituto dei “Cinque Occhi” legato al Pentagono, propose di modificarlo: un ridimensionamento del Grande Kurdistan a favore di un allargamento del Sunnistan irakeno [4], da affidare a un’organizzazione jihadista, il futuro Daesh.

I kurdi dello YPG, branca siriana del PKK, tentarono di creare un nuovo Stato, il Rojava, con l’ausilio delle forze statunitensi. Vennero sfruttati dal Pentagono per confinare gli jihadisti nella zona loro assegnata. Non ci fu mai contrasto teologico o ideologico tra YPG e Daesh, solo rivalità per un territorio da spartirsi sulle macerie di Iraq e Siria. Del resto, quando l’Emirato di Daesh crollò, lo YPG aiutò gli jihadisti a ricongiungersi con le forze di Al Qaeda a Idlib, consentendogli di attraversare il loro “Kurdistan”.

Riguardo ai kurdi iracheni del clan Barzani, parteciparono direttamente alla conquista dell’Iraq da parte di Daesh. Secondo il PKK, Masrour “Jomaa” Barzani, figlio del presidente, nonché capo dell’intelligence del governo regionale kurdo iracheno, partecipò il 1° giugno 2014 ad Amman alla riunione segreta della CIA in cui venne pianificata l’operazione [5]. I Barzani non scatenarono mai battaglie contro Daesh. Si contentarono di imporgli il rispetto del proprio territorio e di inviarne i combattenti ad affrontare i sunniti. Fecero di peggio: lasciarono che, nella battaglia di Sinijar, Daesh riducesse in schiavitù dei kurdi non-mussulmani, gli yezidi. Quelli che si salvarono lo furono grazie ai combattenti del PKK turco e dello YPG siriano, inviati sul posto.

Il 27 novembre 2017, con il sostegno di Israele, i Barzani organizzarono nel Kurdistan iracheno un referendum di autodeterminazione, che perdettero nonostante gli evidenti brogli. La sera dello scrutinio, il mondo arabo scoprì con stupore a Erbil una marea di bandiere israeliane. Secondo la rivista Israel-Kurd, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si era impegnato, in caso di vittoria, a trasferire 200 mila kurdi israeliani per proteggere il nuovo Stato.

Per avere diritto all’autodeterminazione un popolo deve innanzitutto essere unito. Così non è mai stato nel caso dei kurdi. Deve inoltre abitare un territorio ove è maggioranza, cosa che vale per l’Anatolia, ma solo a cominciare dal genocidio degli armeni; per il nord dell’Iraq, ma solo dopo la pulizia etnica della zona di divieto di volo durante il dopo-Tempesta del deserto; infine per il nord-est della Siria, ma solo dopo l’espulsione degli assiri cristiani e degli arabi. Riconoscere oggi ai kurdi questo diritto equivarrebbe a legittimare i loro crimini contro l’umanità.


[1] Divulgò per la prima volta questa strategia il colonnello Ralph Peters in “Stability, America’s Ennemy”, Parameteers 31-4 (rivista delle forze armate di terra USA), Hiver 2001. Fu poi esposta in modo più chiaro, a beneficio del grande pubblico, dall’assistente dell’ammiraglio Cebrowski, Thomas P.M. Barnett, in The Pentagon’s New Map, Putnam Publishing Group, 2004. Infine il colonnello Peters pubblicò la mappa delineata dallo stato-maggiore USA in “Blood borders - How a better Middle East would look”, Colonel Ralph Peters, Armed Forces Journal, June 2006.
[2] Un gran numero di documenti disponibili dal 2005 attestano la preparazione da parte dell’MI6 di quest’operazione, in particolare le e-mail del Foreign Office rivelate dal lanciatore di allerte Derek Pasquill. Si legga Sotto i nostri occhi. La grande menzogna della “Primavera araba”. Dall’11 settembre a Donald Trump, Thierry Meyssan, Edizioni La Vela, 2018.
[3] All’epoca, l’esistenza di questo Protocollo segreto fu rivelata dalla stampa algerina. Diplomatici siriani me ne hanno esposto i dettagli. Sfortunatamente gli archivi a Damasco, ove era depositato, sono stati trasferiti precipitosamente durante un attacco jihadista. Benché non sia possibile disporne in questo momento, il Protocollo sarà reso pubblico non appena questi archivi saranno sistemati.
[4]Imagining a Remapped Middle East”, Robin Wright, The New York Times Sunday Review, September 28, 2013.
[5] «Yer: Amman, Tarih: 1, Konu: Musul», Akif Serhat, Özgür Gündem, 6 juillet 2014





Il Kurdistan immaginato dal colonialismo francese

Contrariamente a un luogo comune, il Rojava non è uno Stato pensato per il popolo kurdo, bensì una fantasticheria del colonialismo francese, nata nel periodo tra le due guerre. Insieme ai kurdi si voleva creare uno Stato fantoccio, analogamente al Grande Israele da fondarsi con gli ebrei. Un obiettivo del colonialismo rispolverato dai presidenti Sarkozy, Hollande e Macron, che l’hanno spinto sino alla pulizia etnica nella regione dove il nuovo Stato doveva sorgere.


Una delegazione kurda è ricevuta all’Eliseo dal presidente francese François Hollande e dal ministro degli Esteri dell’epoca, Jean-Yves Le Drian, presente anche Bernard-Henri Lévy, organizzatore dei disastri di Tunisia, Egitto e Libia.


L’Alto Commissario francese per il Levante, generale Henri Gourraud, recluta, con l’ausilio dei turchi, 900 uomini del clan kurdo dei Millis per reprimere la ribellione nazionalista araba ad Aleppo e Raqqa. Questi mercenari combatteranno come gendarmi francesi sotto la bandiera che diventerà l’attuale vessillo dell’Esercito Siriano Libero (telegramma del 5 gennaio 1921).

Fonte: Archivi dell’esercito francese.




A eccezione del principe Rewanduz, il popolo kurdo non ha mai sognato l’unificazione. Nel XIX secolo Rewanduz, ispirandosi al concetto tedesco di Nazione, progettava di unificare prioritariamente la lingua dei kurdi. Ancor oggi esistono molte lingue che determinano una separazione molto netta fra i clan kurmanji, sorani, zazaki e gurani.
Secondo documenti che per primo ha studiato l’intellettuale libanese Hassan Hamadé – che ora scrive un sorprendente saggio – nel 1936 il presidente del consiglio dei ministri francese, Léon Blum, negoziò con il capo dell’Agenzia Ebraica, Chaim Wiezmann, e con i britannici la creazione di un Grande Stato di Israele che si sarebbe esteso dalla Palestina all’Eufrate, comprendente quindi Libano e Siria, all’epoca protettorati francesi. Il progetto fallì per la furiosa opposizione dell’Alto Commissario francese per il Levante, conte Damien de Martel. All’epoca, Francia e – probabilmente – Regno Unito miravano a creare uno Stato kurdo a est dell’Eufrate.


Il 4 febbraio 1994 il presidente Mitterrand riceve una delegazione kurda di membri del PKK turco.

La questione kurda tornò a essere prioritaria con il presidente francese François Mitterrand. In piena guerra fredda la moglie Danielle divenne la “madre dei kurdi” [del clan dei Barzani].
Il 14 e 15 ottobre 1989 Danielle Mitterrand organizzò a Parigi un congresso dal titolo «I kurdi: l’identità culturale, il rispetto dei diritti dell’uomo». La moglie di Mitterrand svolse anche un ruolo di primo piano nella falsa imputazione alla crudeltà del presidente Saddam Hussein della morte dei kurdi del villaggio di Halabja durante la guerra fra Iraq e Iran; rapporti dell’US Army hanno invece stabilito che, nel corso di una terribile battaglia, gas iraniani sono stati trasportati dal vento [1].
Nel 1992 Danielle Mitterrand prese altresì parte alla creazione di un governo fantoccio kurdo, nella zona irachena occupata dagli anglosassoni.


Il 31 ottobre 2014, sotto il portico dell’Eliseo, mentre il presidente francese François Hollande riaccompagna il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Un altro ospite è appena uscito dalla porta di servizio, il kurdo filo-turco Salih Muslim.

Nel 2011, durante la presidenza di Nicolas Sarkozy, Alain Juppé stipulò un Protocollo segreto con la Turchia per creare uno pseudo-Kurdistan. La Siria non reagì. Il 31 ottobre 2014 il presidente François Hollande ricevette ufficialmente all’Eliseo il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e, ufficiosamente, il co-presidente dello YPG, Salih Muslim, per mettere a punto lo smembramento della Siria. I combattenti kurdi cessarono di riconoscersi siriani e iniziarono una lotta per conquistare una patria propria. Immediatamente la Siria smise di versare loro lo stipendio.


Alla fine della battaglia di Kobané, François Hollande cambia campo e, per rimarcare il proprio sostegno ai kurdi, l’8 febbraio 2015 riceve all’Eliseo una delegazione filo-USA dello YPG.


Dopo alcuni mesi però il presidente Barack Obama richiama la Francia all’ordine: Parigi non può negoziare uno pseudo-Kurdistan per alimentare i vecchi sogni coloniali, può farlo solo il Pentagono, che deve mettere in atto il piano etnico Rumsfeld/Cebrowski.

Hollande si piega e riceve una delegazione kurda di combattenti filo-USA di Aïn al-Arab (Kobané, in lingua kurda). La Turchia invece rifiuta di sottomettersi a Washington. È l’inizio di una lunga divergenza tra i membri dell’Alleanza Atlantica. Ritenendo che il voltafaccia dei francesi violi l’accordo del 31 ottobre 2014, i servizi segreti turchi organizzano insieme a Daesh gli attentati del 13 novembre 2015 contro la Francia e del 22 marzo 2016 contro il Belgio, a sua volta allineatosi a Washington [2]. Il presidente Erdoğan aveva annunciato senza giri di parole gli attentati contro il Belgio e la stampa al suo servizio li rivendicò. Infine, Salih Muslim organizza la coscrizione obbligatoria dei giovani kurdi e costruisce la propria dittatura; Ankara emette un mandato di arresto contro di lui.

Decreto di kurdizzazione forzata del nord della Siria. Il documento, divulgato dalle vittime assiro-cristiane, dimostra la pulizia etnica compiuta dalle FDS, inquadrate dagli USA

 
In ottobre 2015 il Pentagono crea le Forze Democratiche Siriane (FDS), unità di mercenari kurdi, turchi e siriani, nonché di alcuni arabi e cristiani. La pulizia etnica può essere così organizzata senza assumersene pubblicamente la responsabilità. Le FDS espellono le famiglie arabe, nonché quelle cristiano-assire. Combattenti venuti da Iraq e Turchia s’installano nelle case di questa gente e prendono possesso delle loro terre. L’arcivescovo cattolico-siriaco di Hassaké-Nisibi, monsignor Jacques Behnan Hindo, dichiarerà di aver sentito più volte leader kurdi parlare di un piano di estirpazione dei cristiani del “Rojava”. Le forze speciali francesi assistono senza fiatare a siffatti crimini contro l’umanità.

Il 17 marzo 2016 l’autonomia del “Rojava” (pseudo-Kurdistan in Siria) è dichiarata [3]. Temendo l’unione tra il PKK turco e il clan Barzani iracheno, che aprirebbe la strada alla creazione di un Grande Kurdistan, il governo iracheno invia armi al PKK per rovesciare i Barzani. Segue una serie di assassinii di personalità kurde a opera di clan tra loro rivali.

A fine 2016 il ritiro parziale dell’esercito russo e la successiva liberazione di Aleppo da parte dell’Esercito Arabo Siriano determinano il rovesciamento definitivo delle sorti della guerra. Coincidono con l’arrivo alla Casa Bianca, a gennaio 2017, del presidente Donald Trump, il cui programma elettorale prevedeva di mettere fine alla strategia Rumsfeld/Cebrowski, di cessare il sostegno massiccio agli jihadisti, nonché il ritiro dalla Siria della NATO e delle truppe USA.

Dal canto suo la Francia favorisce la partenza per il “Rojava” di giovani combattenti anarchici, convinti di andare in difesa della causa kurda e invece mandati a combattere per l’Alleanza Atlantica [4]. Tornati in Francia, si riveleranno altrettanto incontrollabili dei giovani jihadisti francesi. Secondo la DGSI (intelligence interna) uno di questi combattenti tenterà di abbattere un elicottero della gendarmeria durante l’evacuazione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes [5].

A giugno 2017 il presidente Trump autorizza un’operazione congiunta dell’Esercito Arabo Siriano (comandato dal presidente Bashar al-Assad) e delle FDS (ovvero dei mercenari kurdi filo-USA) per liberare Raqqa, la capitale di Daesh [6].

La guerra è finita, ma né Francia né Germania vi si rassegnano.

Progressivamente, il controllo dello YPG sfugge agli Stati Uniti, che finiscono per disinteressarsene. L’organizzazione diventa così un giocattolo dei francesi, allo stesso modo dei Fratelli Mussulmani, marionette nelle mani dei britannici.


Questa mappa è stata pubblicata a gennaio 2019 da Anadolu Agency. In essa sono segnate nove basi francesi, otto delle quali fatte installare dal presidente Emmanuel Macron.

La Turchia fa allora pubblicare dall’agenzia ufficiale Anadolu Agency la mappa delle basi militari francesi in “Rojava”, portate a nove da Emmanuel Macron. In precedenza si conosceva soltanto quella del gruppo cementiere Lafarge. Così facendo, Ankara vuole dimostrare che, contrariamente alle dichiarazioni ufficiali e a differenza degli Stati Uniti, la Francia continua a essere favorevole alla divisione della Siria.

A febbraio 2018 l’ambasciatore della Federazione Russa all’ONU, Vassily Nebenzia, rivela che i kurdi siriani hanno amnistiato 120 leader di Daesh e li hanno assorbiti nello YPG.

Da settembre 2018 il presidente Trump prepara il ritiro delle truppe USA da tutta la Siria [7]. L’abbandono del “Rojava” è condizionato all’interruzione della strada iraniana che potrebbe attraversare il territorio per raggiungere il Libano. In agosto il presidente Erdoğan s’impegnerà a provvedervi. I GI’s sovrintendono alla distruzione delle strutture difensive dei kurdi. Il 16 settembre Russia, Turchia e Iran raggiungono un accordo. Da questa data la fine dello pseudo-Kurdistan diventa imminente. Non comprendendo quanto sta accadendo, la Francia è sbalordita quando le truppe turche invadono brutalmente lo pseudo-Stato autonomo e di fronte alla popolazione che fugge dal territorio illegalmente occupato.


Innamorato della propria immagine e totalmente disconnesso dalla realtà, Jean-Yves le Drian garantisce dal palcoscenico televisivo di France2 che la Francia persegue i propri obiettivi in Siria senza correre rischi.

Invitato dal telegiornale di France2, il 10 settembre il ministro degli Esteri Jean-Yves le Drian cerca di rassicurare i francesi sulle conseguenze del fiasco. Assicura che la Francia ha il controllo della situazione: gli jihadisti detenuti in “Rojava” non saranno liberati ma giudicati sul posto, benché in questo pseudo-Stato non ci siano istituzioni. Prosegue affermando che il presidente Erdoğan minaccia a vuoto la Francia. Si rifiuta infine di rispondere a una domanda sulla missione che sul posto può svolgere l’esercito francese, in piena disfatta.

Non si conosce quale sarà la sorte degli jihadisti prigionieri e delle popolazioni civili che hanno sottratto questa terra ai legittimi proprietari; non si hanno altresì notizie dei soldati delle nove basi militari francesi, presi tra due fuochi: da un lato l’esercito turco, tradito dal presidente Hollande, dall’altro lo YPG, che il presidente Macron ha abbandonato e i cui membri hanno di nuovo dichiarato fedeltà alla Repubblica Araba Siriana.



[1]A War Crime Or an Act of War?”, Stephen C. Pelletiere, The New York Times, January 31, 2003.
[2] Secondo gli esperti di antiterrorismo, questi attentati non sono stati compiuti con modalità operativa paragonabile a quella di altri attentati rivendicati da Daesh: indicano un’organizzazione militare minuziosa, fanno pensare a un atto di guerra perpetrato da uno Stato. «Il movente degli attentati di Parigi e di Bruxelles», Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 18 marzo 2016, traduzione di Matzu Yagi.
[3] « Déclaration du Rojava pour une Syrie fédérale », Réseau Voltaire, 17 mars 2016.
[4] «Le Brigate anarchiche della NATO», Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 15 settembre 2017, traduzione di Rachele Marmetti.
[5] « Ces revenants du Rojava qui inquiètent les services de renseignement », Matthieu Suc et Jacques Massey, Médiapart, 2 septembre 2019.
[6]Secret Russian-Kurdish-Syrian military cooperation is happening in Syria’s eastern desert”, Robert Fisk, The Independent, July 24, 2017.
[7]Trump eyeing Arab ‘boots on the ground’ to counter Iran in Syria”, Travis J. Tritten, Washington Examiner, September 29, 2018.





L’invasione turca del Rojava

La comunità internazionale pubblicamente teme la brutalità dell’intervento turco nel nord della Siria. Ufficiosamente però se ne rallegra perché l’operazione turca è la sola e unica soluzione per il ripristino della pace nella regione. Un ennesimo crimine mette fine alla guerra contro la Siria. La sorte dei mercenari stranieri di Idlib, jihadisti infuriati dopo otto anni di guerra particolarmente selvaggia e crudele, non è stata ancora decisa.


Il 15 ottobre 2016 il presidente Erdoğan annuncia ufficialmente che la Turchia realizzerà il giuramento nazionale di Mustafa Kemal Atatürk. Il Paese, che occupa già militarmente parte di Cipro e Iraq, ora rivendica parte della Siria e della Grecia. Il suo esercito si prepara.

Nel 2011 la Turchia ha organizzato, come le veniva richiesto, la migrazione di tre milioni di siriani allo scopo di fiaccare la Siria. Poi ha sostenuto i Fratelli Mussulmani e i gruppi jihadisti loro affiliati, compreso Daesh. Già che c’era, ha saccheggiato le macchine utensili di Aleppo e installato nell’Emirato Islamico officine di contraffazione.
Ebbra per le vittorie in Libia e Siria, la Turchia è diventata la Protettrice della Confraternita dei Fratelli Mussulmani, s’è avvicinata all’Iran e ha sfidato l’Arabia Saudita. Ha installato basi militari attorno al Regno wahabita: in Qatar, Kuwait e Sudan; poi ha assoldato agenzie di relazioni pubbliche occidentali per distruggere l’immagine del principe Mohamed Bin Salman, soprattutto con l’affare Kashoggi [1]. Poco per volta è arrivata a pensare di poter estendere la propria potenza fino a diventare il XIV impero mongolo. Attribuendo, a torto, quest’evoluzione unicamente a Recep Tayyip Erdoğan, la CIA ha tentato più volte di assassinarlo e infine ha provocato il fallito colpo di Stato di luglio 2016. Sono seguiti tre anni d’incertezze, cui il presidente Erdoğan ha messo fine a luglio 2019, decidendo di anteporre il nazionalismo all’islamismo [2]. Oggi la Turchia, benché tuttora membro della NATO, veicola gas russo in Unione Europea e acquista S-400 da Mosca [3]. Tutela le minoranze, compresa quella kurda, e non pretende più di essere nazione mussulmano sunnita, bensì soltanto fedele al proprio ideale di Patria.

– Nella scorsa estate il presidente Donald Trump ha fatto sapere di aver intenzione di ritirare le truppe USA da tutta la Siria – a cominciare dal Rojava – a condizione che la linea di comunicazione tra Iran e Libano venga interrotta. Il ritiro era già stato annunciato il 17 dicembre 2018, mentre la condizione è una novità. La Turchia ha sottoscritto l’impegno, in cambio del diritto a occupare la striscia frontaliera siriana dalla quale l’artiglieria dei terroristi può bombardarla. – La Russia ha fatto sapere di non sostenere i delinquenti dello YPG e i crimini da loro commessi contro l’umanità e di accettare un intervento turco, a condizione che la popolazione cristiana possa tornare sulla propria terra. La Turchia se n’è assunta l’impegno. – La Siria ha fatto sapere che non avrebbe respinto nell’immediato un’invasione turca purché possa liberare nel governatorato di Idlib una porzione di territorio equivalente. La Turchia ha accettato. – L’Iran ha fatto sapere che, sebbene disapprovi un intervento turco, interverrà soltanto nell’interesse degli sciiti e che la sorte del Rojava non lo riguarda. Asserzione che la Turchia ha registrato.


L’inizio della fine del Rojava è stato sancito dai vertici Stati Uniti/Russia, tenutisi a Tel Aviv e a Ginevra, rispettivamente a giugno e agosto 2019.

Più vertici internazionali sono stati organizzati per analizzare le conseguenze di queste posizioni e decidere questioni secondarie (per esempio che il petrolio nella striscia frontaliera siriana non potrà essere sfruttato dall’esercito turco, ma soltanto da una società statunitense). Dapprima si sono riuniti i consiglieri per la sicurezza statunitensi e russi. Poi i capi di Stato di Russia, Turchia e Iran. − Il 22 luglio 2019 la Turchia annuncia la sospensione dell’accordo con l’Unione Europea sull’immigrazione [4]. − Il 3 agosto il presidente Erdoğan nomina nuovi ufficiali superiori, alcuni dei quali kurdi, e ordina la preparazione dell’invasione del Rojava. − Erdoğan ordina altresì all’esercito turco di ritirarsi di fronte all’Esercito Arabo Siriano nel governatorato di Idlib, per consentire ai siriani di liberare una porzione di territorio equivalente a quella che i turchi avrebbero invaso a est. [5] − Il 23 agosto il Pentagono ordina lo smantellamento delle fortificazioni dello YPG, in modo che l’esercito turco possa sferrare un’offensiva-lampo [6]. − Il 31 agosto, grazie a informazioni turche, per sostenere l’Esercito Arabo Siriano il Pentagono bombarda una riunione di dirigenti di Al Qaeda a Idlib, [7]. − Il 18 settembre il presidente Trump sostituisce il consigliere per la Sicurezza con Robert O’Brien, personalità discreta che conosce bene il presidente Erdoğan, con cui ha risolto le conseguenze del fallito colpo di Stato di luglio 2016 [8]. − Il 1° ottobre il presidente Erdoğan annuncia l’imminente spostamento di due milioni di rifugiati siriani in Rojava [9]. − Il 5 ottobre gli Stati Uniti chiedono ai membri della Coalizione Internazionale di recuperare i loro concittadini jihadisti imprigionati in Rojava. Il Regno Unito chiede siano trasferiti in Iraq, Francia e Germania invece rifiutano [10]. − Il 6 ottobre gli Stati Uniti dichiarano di non rispondere più degli jihadisti prigionieri, dal momento che il Rojava sta per passare sotto responsabilità turca. − Il 7 ottobre le Forze Speciali USA iniziano il ritiro dal Rojava. − Il 9 ottobre l’esercito turco – comandato soprattutto da ufficiali kurdi – e i miliziani turcomanni – che hanno rilevato la bandiera dell’Esercito Siriano Libero – invadono la striscia di territorio siriano profonda 32 chilometri, occupata dallo YPG.

Se si limita alla striscia frontaliera di 32 chilometri e non si trasforma in occupazione a tempo indeterminato, l’operazione turca “Fonte di pace” è perfettamente legale per il diritto internazionale [11]. Per questa ragione l’esercito turco ha fatto ricorso a migliaia di turcomanni per cacciare lo YPG dal resto del Rojava.


Riunione di coordinamento dell’operazione “Fonte di Pace” nel bunker di comando del Palazzo Bianco ad Ankara.

La stampa internazionale non ha seguito gli eventi sul posto, si è accontentata delle contraddittorie dichiarazioni ufficiali degli ultimi mesi. Tutti gli Stati, all’unisono, denunciano l’operazione turca, compresi Stati Uniti, Russia, Israele, Iran e Siria, che l’hanno negoziata e convalidata. I Paesi che minacciano la Turchia dovrebbero riflettere sulla possibile migrazione dei loro concittadini, jihadisti agguerriti di Idlib.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunisce d’urgenza su richiesta del presidente Macron e della cancelliera Merkel. Per non far vedere che nessuno si oppone davvero all’intervento turco – nemmeno la Francia – la seduta si svolge a porte chiuse e non è oggetto di dichiarazioni da parte del presidente del Consiglio.

È poco probabile che l’esangue Siria possa nell’immediato recuperare questa striscia di territorio, quando l’Iraq non è riuscito a liberare Bashiqa (110 chilometri di profondità) e la stessa Unione Europea non è riuscita a liberare il terzo di Cipro, occupato dal 1974.


L’11 ottobre Jens Stoltenberg porta alla Turchia la benedizione della NATO.

Nonostante le richieste di Francia e Germania, il Consiglio dell’Alleanza Atlantica non si riunirà. L’11 ottobre il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, si reca ad Ankara per assicurarsi che l’operazione sta funzionando. Elogia la grandezza della Turchia, chiudendo così il becco a tedeschi e francesi [12]. Il 13 ottobre lo YPG, in pieno sbandamento, cambia direzione; su consiglio russo, i dirigenti kurdi, che da sempre negoziano con Damasco, sulla base russa di Hmeimim dichiarano fedeltà alla Repubblica Araba Siriana [13]. Ciononostante, alcuni membri della direzione dello YPG contestano la rinuncia al Rojava.

Il 14 ottobre il presidente Donald Trump adotta sanzioni contro la Turchia: sono puramente simboliche, ma permettono ad Ankara di andare avanti nell’attacco, prescindendo dalle critiche [14].

Il presidente Donald Trump è riuscito a mettere fine al problema del Rojava. L’esercito russo ha occupato le basi USA, abbandonate dai GI’s, mettendo in mostra il ruolo che Mosca ora occupa in sostituzione di Washington.

La Siria, pur denunciando l’intervento turco, ha liberato un quarto del proprio territorio.
La Turchia regola la questione del terrorismo kurdo e sta pensando di regolare anche quella dei rifugiati siriani.
Grande sarà la tentazione della Turchia di non fermarsi ora.
Traduzione
Rachele Marmetti
Giornale di bordo

 
Fonte Voltairenet

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