Filosoficamente e militarmente parlando, la mente è sempre stata l’arma migliore a disposizione dell’uomo fin dall’alba dei tempi, sia per l’elaborazione di strategie che per la creazione di nuovi sistemi offensivi e difensivi da adoperare in battaglia.
Nel 2019, la Darpa ha deciso di rendere tale metafora una realtà con il lancio del programma N3, ossia Next-generation Non-surgical Neurotechnology (Neurotecnologia non chirurgica di nuova generazione). Tralasciando eccessivi dettagli tecnico-scientifici riguardanti il funzionamento di tali sistemi, N3 mira alla creazione un’interfaccia di collegamento neurale diretto tra uomo e macchina, permettendo al cervello del pilota umano di inviare istruzioni ai sistemi connessi senza ausilio di consolle esterne.
Pur non trattandosi del primo sistema di guida neurale in assoluto, N3 presenta una sostanziale e ambiziosa differenza rispetto ai progetti condotti finora: l’operabilità non chirurgica. In sintesi, N3 consentirebbe la creazione di un’interfaccia neurale uomo-macchina senza ricorrere a interventi o a modifiche invasive nel cranio dell’operatore come, ad esempio, l’applicazione di elettrodi.
Per quanto riguarda gli aspetti economici e organizzativi, lo sviluppo del progetto lanciato dalla Darpa è stato ripartito tra sei diversi enti di ricerca, che hanno a disposizione quattro anni per mettere a punto i loro prototipi seguendo tre diverse fasi di sviluppo (un anno è previsto per la prima fase e 18 mesi per ciascuna delle altre due).
Mente organica, corpo sintetico
Quando si parla di comunicazione tra uomo e macchina il principale problema è dato dalla lettura degli impulsi elettrici che il cervello usa per trasmettere (di norma, con il resto del corpo umano). Entra qui in gioco la necessità di una lettura in ‘alta definizione’ dell’attività neurale dell’operatore, al fine di poter impartire ordini chiari alla macchina.
A tal riguardo, il programma N3 si pone un target scientifico decisamente ambizioso: lo sviluppo di un’interfaccia in grado di leggere l’attività delle cellule presenti in un millimetro cubo di tessuto cerebrale e interagire con esse in un arco di tempo di appena 50 millisecondi, coinvolgendo nel processo 16 aree diverse del cervello. Anche tenendo conto dei notevoli progressi fatti nel campo delle neuroscienze e della robotica in questi ultimi anni, bisogna considerare alcuni aspetti alla base della relazione uomo-macchina.
Innanzitutto, occorre ricordare che la comunicazione non è unidirezionale. Quando l’operatore trasmette un impulso, la macchina risponde. Un passaggio che potrebbe risultare particolarmente complesso e delicato in campo bellico, vista l’elevata complessità di determinati ordini e quantità di variabili da considerare prima di impartirli a un plotone di soldati o, come da ambizione di N3, una flotta di droni. Pertanto, i margini di errore restano a livello teorico ancora molto alti.
In secondo luogo, bisogna assicurare all’operatore una protezione adeguata. Essendo il cervello naturalmente concepito ‘su misura’ del corpo umano, è necessario impedire che esso venga esposto a un volume eccessivo di stimoli e fatica. Andrebbe contro ogni logica impiegare in battaglia un sistema che espone gli operatori al rischio di sostenere gravi emorragie cerebrali, specialmente considerando lo sviluppo odierno delle tecnologie di disturbo (i cosiddetti jammer) o delle armi a impulsi elettromagnetici (Emp), le quali potrebbero in alcuni casi friggere, oltre al drone, anche le sinapsi dell’operatore.
Guerra e pace
Valutate dunque le premesse teoriche, una breve analisi tattica sull’impiego di N3 (anch’essa, per il momento, ancora teorica) è quantomeno doverosa. La principale motivazione che ha mosso la Darpa ad avviare un progetto come N3 è facilmente intuibile: in un mondo dove automazione e droni si stanno diffondendo in maniera rapida e visibile tra le forze armate delle nazioni più avanzate, chi controlla le forze robotiche in maniera più efficace e reattiva controlla facilmente anche il campo di battaglia.
Ciononostante, tale osservazione non si limita solo a un efficace controllo sulle unità senza pilota aeree o terrestri (Uav, Ugv). Come spiegato dal direttore del programma Al Emondi, una tecnologia come N3 trova applicazione anche nel campo della cybersecurity e potrebbe verosimilmente essere impiegata anche nella gestione di infrastrutture strategiche. Ma il Pentagono non è necessariamente destinato a essere l’unico beneficiario (così come non è stato l’unico finanziatore) di questa tecnologia.
Per definizione stessa di dual-use, le applicazioni ‘pacifiche’ del sistema N3 sono molteplici. Ad esempio, un sistema come N3 potrebbe aiutare le persone rimaste invalide o mutilate a riacquistare in parte o totalmente le funzioni motorie, collegando i pazienti a degli arti protesici oppure a degli esoscheletri di supporto. Anche il settore spaziale potrebbe beneficiare di N3 in maniera decisiva nello sviluppo dei robonauts e altri progetti di ricerca o esplorazione extraterrestre.
Tuttavia, nessuno può affermare con certezza che le riflessioni etico-morali prevarranno di fatto su interessi economici più grandi, specie considerando il budget astronomico (718 miliardi di dollari previsti per il 2020) di un apparato militare-industriale come quello statunitense, al quale la Darpa non avrebbe troppi problemi ad attingere.
Supremazia cibernetica
Sebbene N3 costituisca – per il momento ancora in linea teorica – un assottigliamento senza precedenti della già stretta relazione uomo-macchina, esso rappresenta niente più che un tassello di un mosaico ancora incompleto dal quale emerge un unico dato realmente chiaro: ancora una volta, la macchina è chiamata a prendere il posto dell’uomo.
Di conseguenza, le perplessità sul reale impatto sociale di una tecnologia, come quella che N3 si prefigge di sviluppare, non mancano. Per esempio, a un aumento dell’efficienza operativa potrebbe corrispondere una riduzione di organico (anche in altri settori economici non necessariamente meno importanti della difesa) dove il ruolo dell’uomo potrebbe d’un tratto essere ritenuto ‘non più essenziale’. Al fine di evitare che ciò avvenga, le autorità civili e militari dovrebbero quantomeno mostrare una certa cautela verso l’adozione massiccia di sistemi del tipo N3.
In conclusione, non è certo la tecnologia portatrice di incertezza, quanto l’imprevedibile uso che l’uomo è disposto a fare di essa. Senza sfociare in una retorica luddista, forse sarebbe anche il caso di chiedersi se questa ossessione dell’uomo verso l’innovazione tecnologica – e l’intelligenza artificiale in particolar modo – lo stia realmente assistendo nella sua evoluzione o se non stia, progressivamente, solo accelerando la sua obsolescenza.
Fonte: AffariInternazionali
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