In imminenza della riunificazione tedesca, esattamente 30 anni fa,
Margareth Thatcher convocò un meeting con storici di fama per discutere i
rischi dell’operazione, con particolare riferimento a due questioni: il
rischio militare, ovvero l’eventualità che la Germania precipitasse l’Europa nella terza guerra continentale del secolo; e il rischio economico,
ovvero che la Germania potesse spostare le sue ambizioni imperialiste
su un piano economico, sottomettendo l’Europa con altri mezzi (già 30
anni fa la Thatcher si poneva il problema del surplus della bilancia
commerciale tedesca). Il responso degli storici non fu confortante,
ma la storia correva troppo veloce, e nonostante le preoccupazioni
della Lady di Ferro fossero condivise dall’omologo francese Mitterand che prevedeva che una Germania riunificata avrebbe agito con la “tradizionale brutalità”, le pressioni americane finirono per prevalere, e unificazione fu.
La Francia si consolò presto con la prospettiva assai ottimistica che
una moneta unica avrebbe fatto da argine all’arroganza tedesca, mentre
l’Inghilterra maturò uno scetticismo di fondo nei confronti di una
costruzione europea inevitabilmente germano-centrica, che si concretizzò
nel rifiuto di entrare nel progetto della moneta unica. A distanza di trent’anni
dalla riunificazione tedesca, la Gran Bretagna ha tagliato quello che
restava, del cordone ombelicale con la politica europea, e ha lasciato
il resto del continente al suo destino. Una scelta che è figlia proprio
di quella diffidenza mostrata dalla Thatcher, nonostante la stampa
globalista di mezzo mondo racconti ancora la storiella ridicola che gli
inglesi si sono semplicemente sbagliati (3 volte in 3 anni, tra
referendum ed elezioni!) e che a volere la Brexit fosse solo un esercito
agguerrito ma minoritario di bifolchi.
Niente di più distante dalla realtà: esiste una
classe conservatrice britannica, molto ben rappresentata a tutti i
livelli (stampa compresa, vedi le posizioni del prestigioso Telegraph
in materia di Brexit) che di morire tedesca per mano di un manipolo di
burocrati a Bruxelles non ne ha mai avuto voglia, e proprio quella
classe ha trainato il paese verso la fuga precipitosa dalla gabbia
europea. Fuga rappresentata molto bene anche dalla prossima uscita di
scena di Carney, il banchiere centrale inglese tutto
Remain e Global Warming, che in questi giorni fa i pacchi per lasciare
il posto ad un successore più in linea con le ambizioni britanniche del
nuovo corso (ne riparleremo).
Dalla Thatcher alle Tre Grazie
Proprio negli stessi giorni in cui Boris Johnson e il suo ciuffo
biondo facevano marameo all’Europa e ai suoi guastatori inoculati da
anni nei gangli vitali nel Regno Unito, le Tre Grazie europee: Merkel,
Van der Leyen e Lagarde, erano invece tutte intente a sbracciarsi per
descrivere un futuro continentale vedissimo e bellissimo. Ricorrendo per
altro all’uso di termini scientificamente insensati e squalificanti come la cosiddetta “neutralità climatica”:
bestialità ascientifica e involontariamente comica, ma che rende bene
l’idea dello sprofondo culturale e ideologico in cui è precipitata
l’elite continentale di questi tempi.
Il punto è che il Global Warming e la Green Economy sono ormai diventate il sacro Graal della politica economica europea. Per necessità innanzitutto,
visto che la Merkel in Germania è assediata dall’ascesa travolgente di
partiti verdi che minacciano di spazzare via il tessuto industriale su
cui il Paese ha costruito il suo benessere e la sua posizione di
predominio continentale. E per un calcolo strategico che promette di rivelarsi disastroso per il futuro dell’Europa e dei suoi abitanti.
Riconversioni miracolose ed elefanti in cristalleria
In un mondo che diventa sempre più protezionista, non solo dalla
prospettiva americana/trumpiana come piace raccontare ai soliti media
liberal-faziosi, bensì a livello mondiale, come mostrano le tensioni
commerciali altissime anche in estremo oriente tra Cina, Giappone e
Corea del Sud, la leadership tedesca non sa letteralmente che pesci prendere.
Prigioniera, come troppo spesso accaduto nella storia, di utopie e dogmi cristallizzati nei decenni (leggi “Austerity”), la politica tedesca si rifiuta di vedere il disastro sociale portato da una economia di stampo cinese,
tutta export e abbassamento del costo del lavoro, al cospetto di una
domanda interna sempre più asfittica, e dell’impoverimento rapidissimo
di quella classe media che è stata la spina dorsale dello sviluppo
economico nel mondo occidentale. Si rifiuta di vedere nel disastro portato dalla moneta unica alle economie europee periferiche la principale minaccia per il suo stesso export. E al cospetto di questo disastro, non trova niente di meglio da fare che rilanciare.
Come? È presto detto: riconvertendo in modo forzoso l’economia europea,
trasformandola in un immaginifico polo manifatturiero “green” capace di
esportare prodotti e tecnologia all’estero. Come anticipato, non solo
questa visione ignora completamente i mali che sono alla radice della
crisi economica attuale, ma se possibile li aggrava. L’utopia
dell’Europa verde che produce benessere e ricchezza si scontra infatti
con problemi strategici enormi, veri e propri elefanti nella cristalleria dei salotti buoni radical-chic, tutti Greta e group-think.
- Non si capisce, per esempio, il motivo per cui Cina, Giappone, Stati Uniti o i paesi in via di sviluppo dovrebbero comprare tecnologia europea “green”. Innanzitutto perché capaci di prodursela internamente, quella tecnologia (i cinesi sono già leader mondiali nei pannelli fotovoltaici e nella produzione delle terre rare necessarie per la fabbricazione di batterie). E in secondo luogo perché i paesi in questione sono molto più attenti a salvaguardare la propria manifattura mantenendo basso il costo dell’energia, che a salvare il mondo a spese dei propri cittadini, come invece pretendono di fare gli europei.
- Il contesto economico in cui si muove l’elite europea ha assunto un carattere di dirigismo utopista che ricorda molto da vicino l’esperienza dell’Unione Sovietica. La pretesa di produrre un bene non richiesto, non necessario, più costoso e più inefficiente di quello attualmente disponibile (leggi auto elettrica vs. auto diesel) con la minaccia di una catastrofe immaginifica e di fatto inesistente (leggi global warming), è decisamente sovietica e nulla ha a che fare con il concetto elementare di produrre un bene per soddisfare una domanda già esistente o in potenza. Si pretende di produrre auto elettriche oggi, come l’Unione Sovietica pretendeva ieri di produrre carri armati e testate nucleari: zero vantaggi per il cittadino, e scelte economiche evidentemente assurde giustificate solo dall’esistenza di un nemico più o meno immaginifico (ieri il conflitto nucleare imminente, oggi la “catastrofe climatica”).
- La distopia e l’assurdità della pretesa di trasformare di colpo l’industria automotive in elettrica è tutta nel confronto tra un passato in cui l’operaio italiano poteva permettersi di comprare la 500 perché aveva un lavoro e uno stipendio dignitosi, e si guadagnava così l’agognato accesso alla mobilità; e un presente in cui l’operaio automotive “convenzionale” il lavoro lo perde, e la macchina non se la potrà più permettere. Tanto meno quella elettrica, che costa il doppio, ha una autonomia ridicola e non è supportata da un sistema di approvvigionamento e distribuzione energetica adeguato. Fatto sta, la conquista della mobilità regalata dalla 500 viene persa, 60 anni dopo, per mano dell’auto elettrica. Chapeau.
- Sullo sfondo, l’ombra lunga della finanza nemica del cittadino, e della classe media. Quella che ama gonfiare bolle gigantesche su asset cartacei e virtuali (in cui investe i propri soldi) senza creare beneficio alcuno in termini di benessere e posti di lavoro. Quella finanza che grazie all’afflusso spaventoso di denaro stampato a profusione dalle banche centrali “amiche”, e distribuito arbitrariamente sulle varie asset class in base a presunte considerazioni “etiche”, ha trasformato obbrobbri economici e aziende mangiasoldi come Tesla in società a capitalizzazione-monstre, senza alcuna giustificazione in termini di fondamentali. La stessa finanza che oggi, mostrando patetica preoccupazione e ipocrita compassione per temi “ambientalisti”, ha deciso che la prossima bolla finanziaria sarà verdissima e che lì andranno collocati i trilioni stampati dalle banche centrali. E chi se ne frega, se le società che saranno gonfiate come palloni (verdi) si riveleranno dei baracconi incapaci di produrre utili, valore e posti di lavoro. L’importante è che vadano ad arricchire le elites che le detengono in portafoglio, in quanto “etiche”.
Se è vero che la storia si ripete, si fa obbiettivamente fatica a non
vedere negli eventi di questo periodo una riproposizione dei vecchi
mali del passato, pur con qualche variazione sul tema. Una Germania in salsa sovietica:
imperialista, dirigista ed utopista, governata da una elite miope,
supponente, e arrogante nell’incapacità di riconoscere i propri errori e
nella pretesa di rilanciare all’infinito, come un giocatore d’azzardo
privo di ogni residuo di lucidità. La Gran Bretagna che se ne va, a braccetto con gli Stati Uniti. Russia e Cina che
seguono le loro agende, profondamente nazionaliste e a loro volta
imperialiste, ma con i vecchi arnesi ideologici conunistoidi, nichilisti
e sovietici passati idealmente più ad ovest, ad una Unione Europea
germano-centrica che si trascina dietro il resto dell’Europa continentale:
confuso, impoverito, culturalmente sradicato ed attaccato alla sottana
di una Germania che oggi, come 75 anni fa, corre a chiudersi nel bunker.
Un bunker verdissimo, col faccione accigliato di Greta stampato sulla porta, ma popolato di leader annebbiati, impreparati e disperati. Di aspiranti suicidi.
Viene da sperare che il destino di questa Europa si compia in fretta,
per la terza volta nell’ultimo secolo. E che si possa ripartire
dall’ennesimo cumulo di macerie ideologiche, economiche e sociali per
rimettere al centro di tutto l’uomo, e le sue sacrosante aspirazioni in
termini di sicurezza, benessere, affetti e realizzazione personale.
Fonte: ClimateMonitor
Fonte: ClimateMonitor
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