domenica 26 gennaio 2020

I MARXISTI E LA QUESTIONE EBRAICA



100 anni di dibattito teorico
e azione politica (1843 - 1943)






In copertina:
Vladimir Medem, dirigente del Bund e teorico dell'autonomia nazional culturale.

NB La presente ricerca si basa in gran parte sul testo di Enzo Traverso Les marxistes e la question juive, pubblicato in Francia nel 1996. Laddove non indicato diversamente, per le fonti delle citazioni si rimanda al testo di Traverso.



INTRODUZIONE


Due opere, scritte a un secolo l'una dall'altra, si possono considerare prologo e conclusione di un dibattito marxista sulla questione ebraica: Sulla questione ebraica (Zur Judenfrage, 1843), del giovane Marx (non ancora marxista), e La concezione materialistica della questione ebraica (La Conception materialiste de la question juive), di Abraham Leon, scritta durante la Seconda guerra mondiale e pubblicata nel 1946. Questo dibattito ebbe luogo essenzialmente in Europa centrale e orientale e conobbe il proprio periodo “classico” tra la fine del XIX secolo e la Rivoluzione russa del 1917. Una tale delimitazione cronologica e geografica non è casuale, ma corrisponde a una fase precisa della storia del marxismo e della storia ebraica.

Sul piano geografico è in Europa, e in particolare in Europa centrale e orientale, che verso la fine del XIX secolo si concentrava la grande maggioranza della popolazione ebraica mondiale; è là che presero forma un proletariato e un movimento operaio ebraico; è là, all'incrocio tra tradizione e modernità, feudalesimo e capitalismo, antisemitismo ed emancipazione, che si precisarono i tratti di una nuova questione ebraica, fondata sulla dialettica nazionalità/assimilazione. E' soprattutto nei paesi dell'Europa centrale e nell'Impero russo che i marxisti affrontarono il problema ebraico e si posero alcune domande fondamentali: quali erano le radici storiche della questione ebraica? Gli ebrei erano una nazione o una casta? La storia riservava loro un avvenire in quanto ebrei o li conduceva all'assimilazione? Qual'era la natura dell'antisemitismo?

Né in Europa occidentale (in Francia, in Inghilterra o in Italia) né negli Stati Uniti (dove peraltro si ebbe un socialismo ebraico di una certa importanza) si sviluppò un dibattito marxista su questi problemi.

Sul piano cronologico, la delimitazione è tracciata dalla Shoah. Durante la Seconda guerra mondiale, il nazismo cancellò completamente la Yiddishland e i socialisti ebrei dalla carta dell'Europa (la loro ultima eroica manifestazione può essere considerata l'insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943), e da allora in avanti il centro di gravità del problema ebraico si spostò in Palestina, con l'affermazione del sionismo. Si tratta dunque di riportare all'attenzione un prezioso patrimonio teorico e pratico che è passato in secondo piano a causa dell'egemonia assunta sul mondo ebraico, a partire dalla seconda metà del Novecento, dal nazionalismo israeliano.


Europa occidentale e centrale: il paradigma dell'assimilazione 
Fino al 1880 circa, tutto il dibattito marxista ruotò intorno a un unico problema: l'assimilazione. La cultura marxista rimase prigioniera di un'interpretazione della storia ebraica ereditata in larga misura dall'Illuminismo, che identificava l'emancipazione con l'assimilazione, che non arrivava a concepire la fine dell'oppressione ebraica se non in termini di superamento della alterità dell'ebreo. Questa interpretazione vide la luce verso la fine del XVIII secolo e sembrò consolidarsi nel periodo successivo. Nel 1791 la Rivoluzione concesse i diritti civili agli ebrei francesi, e le conquiste napoleoniche li estesero agli ebrei olandesi, belgi e tedeschi. Malgrado i ritardi e le marce indietro imposte dalla Restaurazione, l'Austria-Ungheria accordò l'emancipazione nel 1867 e la Germania tra il 1869 e il 1871. La Rivoluzione francese fu presa a modello: gli ebrei non avrebbero dovuto più vivere come una nazione distinta ma diventare in tutto e per tutto parte della nazione in cui vivevano. Tutta la cultura dell'Illuminismo, sia da parte dei favorevoli che dei contrari all'emancipazione, fu foriera di una percezione del giudaismo come anomalia sociale.

Le divergenze sorsero a proposito della definizione delle misure necessarie per la sua soppressione: i conservatori proponevano la segregazione, per impedire agli ebrei di contaminare il mondo cristiano; i riformatori prevedevano la scomparsa del giudaismo attraverso la sua graduale assimilazione (a partire dalla concessione dei diritti civili).

Wilhelm von Dohm, nella sua celebre opera Uber die buergerliche Verbesserung der Juden (Per il miglioramento civile degli Ebrei), uscita a Berlino nel 1781, introdusse la nozione di “miglioramento” (Verbesserung). Questo mutamento semantico rifletteva una prospettiva differente rispetto al passato: il problema dell'emancipazione ebraica non veniva più posto su un piano teologico, bensì piuttosto su un piano sociale e politico. Tuttavia, l'uso stesso del termine “miglioramento” implicava un giudizio negativo sugli ebrei, l'idea che essi mantenessero caratteristiche dannose per la società, delle quali dovevano sbarazzarsi. Il progetto di emancipazione elaborato da von Dohm trovava dunque il proprio punto di partenza nei pregiudizi antiebraici dell'epoca. Il termine “emancipazione” (Emanzipierung), invece, fece la sua apparizione negli anni '30 del XIX secolo, e conobbe un'ampia diffusione dopo le rivoluzioni del 1848. Esso fu accompagnato da un forte significato emotivo, ma non cambiò i termini del problema: l'emancipazione era comunque vista come il mezzo per aiutare gli ebrei a superare i propri difetti.

Secondo lo storico John Bunzl, “l'obiettivo dichiarato della politica di emancipazione era l'assimilazione degli Ebrei, la dissoluzione della loro identità sociale e culturale”.

L'intellighenzia ebraica stessa interiorizzò questo atteggiamento. Moses Mendelsohn, figura principale della cultura gudaico-tedesca del XVIII secolo, si batté per l'assimilazione linguistica degli ebrei e per l'abbandono dell'yiddish, disprezzata come una non-lingua. I maskilim (seguaci dell'Haskalah, l'Illuminismo ebraico) condussero una strenua battaglia per l'integrazione degli ebrei nello stato-nazione tedesco (lo storico Heinrich Graetz si rifiutò di far tradurre in yiddish una propria opera). Nel 1893 la Zentralverein deutscher Staatsburger judischen Glaubens (Unione dei cittadini tedeschi di fede mosaica) si ripromise di “stimolare presso gli Ebrei il sentimento di appartenenza collettiva al popolo tedesco...Mediante la difesa della nostra uguaglianza, noi lottiamo per i massimi ideali dell'umanità, per gli interessi superiori della nostra patria tedesca”. Il nazionalismo e l'idea di progresso trasformarono l'assimilazione ebraica in una sorta di dogma. In realtà, molti concordano sul fatto che in Germania gli ebrei rimasero per lo più intellettuali marginali o, secondo la definizione fornita da Hannah Arendt, dei parvenu che avevano negli occhi le tracce del loro passato di paria. A proposito del processo di emancipazione, Gershom Scholem affermò amaramente che gli ebrei lottarono “non per preservare i propri diritti in quanto popolo, bensì per il desiderio di assimilarsi ai popoli presso i quali vivevano”.

Malgrado tutto, la simbiosi culturale giudaico-tedesca non fu un'illusione. Essa generò opere di straordinaria ricchezza nel campo letterario, della musica e delle scienze sociali. Lo storico Fredric Grunfeld, per esempio, l'ha definita come una “età d'oro superata soltanto dal Rinascimento italiano”.

Nell'Europa centrale, l'emancipazione si presentò effettivamente come un processo di assimilazione degli ebrei al mondo circostante, un mondo costituito da stati-nazione; tuttavia ma sarebbe sbagliato ritenere che l'identità etnica, il sentimento di appartenenza a un gruppo distinto andarono perduti. Essi si espressero piuttosto in un complesso fenomeno di acculturazione.

L'ebraicità conobbe una profonda metamorfosi sociale e culturale, che si potrebbe definire di secolarizzazione, modernizzazione, laicizzazione, ma gli ebrei non sparirono, e continuarono a essere percepiti come ebrei, ovvero come altri, da parte del mondo non ebraico. Benchè si cercasse di negarla, una “questione ebraica” esisteva comunque, come è stato ben espresso da questa frase di Ludwig Boerne: “Alcuni mi rimproverano di essere ebreo, altri mi fanno  i complimenti, altri me lo perdonano, ma tutti se lo ricordano”.

Questo quadro sintetizza il clima culturale e psicologico dominante al volgere del secolo. Il marxismo della Seconda Internazionale, impregnato di positivismo e di determinismo evoluzionista, accolse come un fatto pressoché naturale l'idea dell'assimilazione ebraica come esito inevitabile e desiderabile del “cammino della storia”. Questa concezione è implicita in tutti scritti dedicati alla questione ebraica dai marxisti tedeschi e austriaci: dal giovane Marx che identificava l'emancipazione autentica con la “liberazione della società dal giudaismo”, a Victor Adler che desiderava la “morte di Assuero1 ”, o di Karl Kautsky per il quale “la nazione ebraica non potrà progredire che scomparendo”. Il caso di Kautsky pare emblematico: poiché la sua Weltanschauung marxista-positivista aderiva perfettamente a questa mentalità dominante, la sua analisi portò alla formulazione più coerente (si potrebbe dire ideale) di una teoria marxista dell'assimilazione. La riduzione della specificità ebraica all'essere una “casta” commerciale fu alla base della spiegazione kautskiana del processo di assimilazione. La fine del monopolio ebraico del commercio era una conseguenza dello sviluppo del capitalismo. Gli ebrei perdevano gradualmente il loro carattere di casta, ovvero si “degiudaizzavano”. Poichè il capitalismo era foriero dell'assimilazione, gli ebrei che conservavano una coscienza etnico-culturale propria erano percepiti come reazionari e anacronistici.

La “dissoluzione” degli ebrei entro le nazioni circostanti era considerata una sorta di “legge” dello sviluppo storico della società. E bisogna sottolineare che tale teorizzazione fu spesso opera di marxisti ebrei (basti citare Eduard Bernstein e Otto Bauer), i quali reperirono nel movimento operaio lo strumento della propria stessa assimilazione: un'assimilazione totale, convinta e cosciente, che non si accontentava della formula, proposta dall'Haskalah, per la quale gli ebrei emancipati erano “uomini fuori di casa, ebrei in casa”. Essi trovarono nell'internazionalismo socialista il sostituto dell'identità ebraica perduta o ripudiata. In Germania e Austria, il paradigma dell'assimilazione fu il corrispettivo ideologico dell'assimilazione reale dell'intellighenzia ebraica, avvenuta senza doversi confrontare con un proletariato ebraico, a parte gli Ostjuden immigrati a Vienna e Berlino.



Europa orientale: la questione ebraica diventa questione nazionale
Nell'Europa orientale, invece, questa prospettiva assimilazionista si scontrò con una realtà del tutto diversa, che produsse una coscienza nazionale e una classe operaia ebraica.

In seguito alle Partizioni della Polonia, una serie di avanzate dell'Impero russo verso ovest, nel XIX secolo milioni di ebrei si ritrovarono sotto la dominazione zarista, la quale li escluse dal riconoscimento dei diritti civili. Ciò alimentò presso l'intellighenzia liberale e socialista russa la convinzione che la caduta dell'assolutismo avrebbe portato all'emancipazione e, come in Occidente, alla dispersione degli ebrei nella società circostante (ed eventualmente alla loro russificazione). Il mondo ebraico, invece, restò completamente estraneo all'idea di assimilazione.

Gli ultimi venti anni del XIX secolo (periodo in cui l'assimilazione degli ebrei tedeschi e austriaci appariva ormai come un fatto compiuto e irreversibile) videro una forte crescita dell'antisemitismo in Polonia, Lituania e Ucraina. Il secolo dell'acculturazione giudaico-tedesca nella Mitteleuropa qui fu il secolo della modernizzazione dell'yiddish, la lingua parlata dalla stragrande maggioranza degli ebrei dell'Impero russo. Tra il 1870 e la Prima guerra mondiale la letteratura yiddish visse il suo periodo classico, segnato dalle opere di Mendele Mocher Sforim, Sholom Aleichem, Isaac Peretz e Sholem Asch. I pogrom contribuirono a rafforzare l'isolamento degli ebrei di Russia, ed eressero una barriera contro la loro assimilazione all'ambiente circostante. Lo sviluppo capitalistico e le aperture verso Occidente dell'Impero zarista avevano abbattuto le mura dei ghetti, ma nello stesso tempo la crescita dell'antisemitismo perpetuava le divisioni tra ebrei, russi e polacchi. La frammentazione del mondo ebraico tradizionale non portò alla sua assimilazione ma piuttosto alla nascita di una nazione ebraica di tipo moderno. La yiddishkeit fu il quadro naturale entro il quale la comunità ebraica potè appropriarsi delle nuove idee: la democrazia, il socialismo, il nazionalismo etc. Si può riassumere la situazione degli ebrei dell'Europa orientale nel modo seguente: una struttura sociale formata essenzialmente da un proletariato di origine artigiana e da una piccola borghesia impoverita, un processo di assimilazione molto debole o inesistente, la conservazione dell'yiddish quale lingua nazionale, un importante attaccamento alla tradizione religiosa e all'identità etnica in risposta a un contesto largamente impregnato di antisemitismo. Si tratta di caratteri ben diversi rispetto al giudaismo dell'Europa centrale precedentemente descritto.

In Europa orientale dunque solo un nucleo ristretto di intellighenzia poté realmente assimilarsi (e diventò assimilazionista). Qui la lotta per l'emancipazione trovò come sbocco una presa di coscienza nazionale. Il movimento operaio ebraico incarnò questa aspirazione, cercando di armonizzarla con l'internazionalismo e l'universalismo della tradizione socialista. Il risultato fu l'elaborazione di un complesso di teorie e di correnti di pensiero che si potrebbero riunire sotto la definizione di “giudeo-marxismo”. All'attitudine assimilazionista pressochè unanime dei marxisti tedeschi e austriaci, corrispose una pluralità di approcci alla questione ebraica da parte dei marxisti dell'Impero russo: l'assimilazionismo dei socialdemocratici russi e polacchi, l'autonomismo nazionale dei bundisti, la deviazione nazionalista dei sionisti.

Per Lenin, Martov, Trockij e Rosa Luxemburg l'assimilazione rimase la tendenza storica dominante, mentre Vladimir Medem e Ber Borokhov rivendicarono il diritto degli ebrei dell'Europa orientale a un'esistenza nazionale propria. Ma il sionista socialista Borokhov, in fondo, non fece che rovesciare la teoria di Kautsky: per quest'ultimo l'anomalia di una nazione priva di un territorio e di un'economia specifici non si poteva risolvere se non con l'assimilazione, mentre Borokhov teorizzò la “normalizzazione” della nazione ebraica attraverso un processo di colonizzazione che le avrebbe reso un territorio, un'economia e uno stato, nella fattispecie la Palestina.

L'originalità dei bundisti fu invece nel loro tentativo di pensare in modo diverso la nazione.

Vladimir Medem teorizzò che con lo sviluppo del capitalismo nazione e territorio coincidessero sempre meno. Di qui la sua valorizzazione della yiddishkeit come comunità culturale, culla di una nazione ebraica dispersa. Questo percorso fu all'origine del conflitto coi bolscevichi, il cui internazionalismo astratto fu criticato da Medem in questi termini: “Tutti coloro che hanno un minimo di familiarità con la questione nazionale sanno che la cultura internazionalista non è a-nazionale. Una cultura a-nazionale, né russa, né ebraica, né polacca...più che una cultura è un'assurdità. Le idee internazionaliste non possono esercitare un'attrazione sulla classe operaia se non sono adattate alla lingua parlata dall'operaio e alle condizioni nazionali concrete in cui egli vive. Il lavoratore non dovrebbe restare indifferente alla condizione e allo sviluppo della propria cultura nazionale, poiché è soltanto attraverso questa che egli può accedere alla cultura internazionalista della democrazia e del movimento operaio mondiale. Ciò è evidente, ma V.I. 2 non lo considera per nulla”. Prima della rivoluzione d'Ottobre, i socialdemocratici russi (e i bolscevichi in particolare) furono incapaci di comprendere e accogliere le rivendicazioni nazionali degli ebrei.



Antisemitismo e barbarie imperialista: la Shoah
Dopo la Prima guerra mondiale, la questione ebraica assunse forme nuove. La prima grande trasformazione avvenne in Europa orientale. La rivoluzione liberò gli ebrei russi, e cercò di estirpare l'antisemitismo dall'immensa campagna slava. Nel corso della guerra civile, la popolazione ebraica fece grande affidamento sull'Armata rossa (spesso il solo argine esistente contro i pogrom) e la sua intellighenzia fu reclutata in blocco nell'apparato statale sovietico. Non più minoranza discriminata e oppressa, gli ebrei russi furono riconosciuti come una nazione culturalmente moderna. Durante i venti anni che seguirono la rivoluzione d'Ottobre, la cultura yiddish (in tutte le sue forme, scientifiche, letterarie o artistiche) fu incoraggiata e conobbe un grande sviluppo, sebbene parallelamente venisse meno il pluralismo politico che aveva caratterizzato la vita ebraica nel periodo precedente. Il Bund e le differenti correnti del sionismo socialista sopravvissero in Polonia, mentre in Unione Sovietica furono forzosamente assorbite dal Partito bolscevico. L'unica espressione politica del mondo ebraico rimase quella delle Yevsektsiia, le sezioni ebraiche del PCUS, caratterizzate da un “dispotismo illuminato” sul piano sociale  e culturale (surrogato di un'autonomia nazionale che non vide mai la luce).

Nell'Europa centro-occidentale, e in particolare nella Germania distrutta dalla guerra e dalla crisi economica, il nazismo rimise drammaticamente all'ordine del giorno la questione ebraica. Il movimento operaio tedesco, paralizzato tra la mitologia progressista della socialdemocrazia e il settarismo del Partito Comunista, si rivelò incapace di comprendere l'immenso pericolo rappresentato dal nazismo, e ne sottovalutò il carattere antisemita. Nella Germania di Weimar nessuno poteva prevedere Auschwitz, dunque non si tratta retrospettivamente di accusare i marxisti di non essere stati dei profeti; ma bisogna riconoscere che essi non colsero la differenza qualitativa esistente tra i pogrom russi, il populismo di Karl Lueger, la demagogia di Georg von Schoenerer o Adolf Stoecker, e l'antisemitismo razzista teorizzato da Hitler e Rosenberg, che portava già in sé i germi del genocidio. L'odio etnico verso gli ebrei, una volta trasformatosi in ideologia di stato in un paese capitalisticamente avanzato come la Germania, portava con sé conseguenze pratiche differenti. Il genocidio fu il prodotto della combinazione dell'ideologia razzista dell'imperialismo con la razionalità dei suoi mezzi e la sua tecnologia mortifera, portata ai massimi livelli nel contesto della guerra mondiale.

L'esperienza teorica e pratica del Bund polacco, che tra le due guerre seppe radicarsi a fondo nella società ebraica, collegarsi ai socialisti polacchi e condurre una lotta senza quartiere contro gli antisemiti di quel paese, venne sconfitta dalla furia nazista della Seconda guerra mondiale, lasciando come ultima gloriosa testimonianza la rivolta del ghetto di Varsavia del 1943.

Lo sterminio degli ebrei socialisti avvenuto durante la Shoah permise ai dirigenti del sionismo, al sicuro in Palestina e negli USA, di stabilire un'egemonia sul mondo ebraico, imponendo la nascita di Israele e imprimendo una nuova direzione, di carattere puramente nazionalista, al dibattito sulla questione ebraica.




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