Articolo di Guido Guidi
Una delle più frequenti e odiose accuse rivolte a quanti
commettono l’imprudenza di sollevare dubbi sulla robustezza scientifica
dell’attribuzione delle dinamiche del clima recente in via esclusiva
alle attività umane – leggi soprattutto le emissioni di anidride
carbonica derivanti dall’uso dei combustibili fossili – è quella di
essere al soldo di gruppi di interesse che da una transizione verso
fonti energetiche alternative subirebbero gravi danni economici, e
avrebbero quindi tanto da guadagnare nel distogliere l’attenzione da un
problema invece cogente e reale, a tutto discapito della salvezza del
pianeta.
Vero? Probabilmente sì. Il mondo si regge da sempre sul perseguimento
di interessi spesso inconfessabili. Ma è altrettanto vero che questo
non può e non deve essere un assunto e certe accuse, rivolte in quanto
ritenute infamanti, devono essere provate. E, in assenza di prove, il
dubbio e le incertezze espresse, che sono oltretutto il fondamento della
scienza, devono essere presi per quello che sono, ossia desiderio di
capire, approfondire, e dare solidità al percorso della conoscenza. Un
percorso che, alla luce dei fatti, è tutt’altro che solido.
Prendiamo infatti il caso opposto. Cosa pensereste se venisse fuori
che ci sono fior di realtà finanziarie che hanno agito e agiscono,
legittimamente e alla luce del giorno, per sostenere invece la tesi del
disastro imminente? Personalmente, se il disastro fosse vero, li
considererei dei benefattori dell’umanità. Ma se l’impegno, piuttosto
che nella ricerca di solidità scientifica, fosse stato profuso nel
consolidare una pratica scientifica gravemente deficitaria e instillare
nell’immaginario collettivo e nelle conseguenti azioni dei decisori
certezze che non ci sono, sarebbe la stessa cosa?
Non direi proprio.
Piaccia o no, questo è esattamente quello che è accaduto, ripeto,
alla luce del sole e senza nessuna cospirazione, quanto piuttosto con il
chiaro intento di attuare una strategia salvifica perché ritenuta
necessaria e, soprattutto… utile ;-). Sentimento nobile, certamente, che
però non giustifica in alcun modo l’assalto all’integrità della
scienza. Attenzione, questo non perché la si ritenga intoccabile, in
fondo le cose sono sempre andate così, quanto piuttosto perché le
decisioni prese a valle di questo processo, rischiano gravemente di non
essere giuste, di non affrontare il problema per quello che è e di
proporre soluzioni che dissipano risorse nella direzione sbagliata,
magari facendo comunque la fortuna di qualcuno…
Il tema è, fatevene una ragione, che pur essendo reale per molti
aspetti l’influenza dell’uomo sulle dinamiche del tempo e del clima –
urbanizzazione, cambiamento dello stato d’uso del suolo, emissioni di
CO2 naturalmente – non è affatto vero che la conoscenza attuale permette
di assegnare questo o quel risultato finale in materia climatica ai
diversi percorsi che lo sviluppo della nostra società e il peso che le
conseguenti attività antropiche potranno avere finiranno per generare.
Ma tutti sono convinti del contrario, e cioè che sia assodato che questi
risultati siano noti, alcuni in qualche modo più probabili di altri e
tra questi quasi certi quelli più drammatici.
“the future is inherently unpredictable and so views will differ as to which of the storylines and representative scenarios could be more or less likely. Therefore, the development of a single “best guess” or “business-as-usual” scenario is neither desirable nor possible“.
In
pratica non è possibile definire quale degli scenari proposti sia più
probabile, compreso quello che viene normalmente definito BUS, appunto
business as usual, che non è affatto identificabile con una completa
assenza di policy né con dosi più o meno importanti di azioni di
mitigazione.
Esistono invece diversi scenari, quattro per l’esattezza, molto
differenti tra loro non solo per il “tipo di clima” cui si pensa
potrebbero portare, ma soprattutto per il percorso attraverso cui ci si
dovrebbe arrivare, ivi compresi aspetti dello sviluppo della società che
hanno caratteristica di impredicibilità ancora maggiore di quella del
clima, come l’uso dell’energia, l’economia e, non da ultima, la
demografia. Questi scenari non sono quindi intercambiabili in funzione
delle policy adottate, non si può semplicemente passare da uno
all’altro, descrivono mondi completamente diversi che non comunicano tra
loro. Per dirne una, tra lo scenario con effetti di minore impatto e
quello che dovrebbe condurre al disastro c’è una differenza demografica
di 3 miliardi di esseri umani ad abitare il pianeta.
Per questa ragione, è scientificamente sbagliato tanto immaginare che
possa esistere uno scenario che possa essere definito BUS, tanto che
questo possa coincidere con quello a maggiore impatto. Impostare la
pratica scientifica su questi assunti è una grave inadempienza del
processo scientifico, per il modo stesso con cui questi scenari sono
stati costruiti. Nelle parole di chi li ha creati:
“RCP8.5 cannot be used as a no-climate-policy reference scenario [”business as usual”] for the other RCPs because RCP8.5’s socioeconomic, technology and biophysical assumptions differ from those of the other RCPs.” The scenarios are completely independent from each other, and policy cannot “move” us from one to another.”
Volete sapere la novità? Questo invece è esattamente quello che è
accaduto negli ultimi anni ed ha visto coinvolta praticamente tutta la
comunità scientifica, compresi naturalmente i lavori dell’IPCC.
Tutto è iniziato nel 2012 con l’opera di mecenatismo di tre (molto)
facoltosi uomini politici americani, due dei quali incidentalmente oggi
candidati alle prossime presidenziali, ma non allora ovviamente, e il
terzo ex CEO di Goldman Sachs e ex membro del governo Bush. I nomi? Tom
Steyer, Michael Bloomberg e Hank Paulson. Googolare per credere, i tre
insieme valgono circa 63mld di dollari (quasi tutti di Bloomberg). Con
un contributo di mezzo milione di dollari ciascuno, fondarono un gruppo
di ricerca che produsse di lì a due anni un rapporto che aveva il chiaro
intento di quantificare in termini finanziari gli effetti del climate
change negli Stati Uniti. Questo rapporto: Risky Business: The Economic Risks of Climate Change in the United States.
L’approccio fu esattamente quello discusso poche righe più su,
identificare – sbagliando – il più impattante degli scenari IPCC come
quello più prossimo al Business As Usual e basare tutti i risultati su
quello scenario che, a tutti gli effetti, dall’essere il più lontano
dalla realtà, diventava invece il più probabile, anzi, inevitabile a
meno di opportune e anche molto ben descritte azioni di mitigazione. In
una serie di talk e paper prodotti a valle di quel report, la pratica
scientifica sbagliata diventava virale. Circa 12.000 (!) pubblicazioni
scientifiche hanno citato lavori in cui si faceva riferimento allo
scenario RCP8.5 come Business As Usual, tra queste circa 2.000 (!!)
possono essere ricondotte direttamente al lavoro iniziato con il report e
continuato poi con fortunate operazioni mediatiche come quella del Climate Impact Lab,
che ha generato una serie di tool che consentono la navigazione nel
“clima che verrà”, tutto basato esclusivamente sull’RCP8.5. Alla festa,
naturalmente, si sono uniti vari assessment report di gruppi di studio
istituzionali e l’IPCC nel recente Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate.
E così, la catastrofe climatica prossima ventura, da uno degli scenari possibili, anche se molto lontano dalla realtà – le proiezioni del consumo e del fabbisogno energetico dell’RCP8.5 sono già molto fuori strada, per esempio – è diventata l’unico futuro possibile “se non si agisce presto e bene”. Anzi, nella comunicazione quotidiana, è già una realtà assodata. Tutto questo perché “nessuno si è accorto” che nella pratica scientifica attuale in materia di clima, si continua a fare un uso distorto ed errato di strumenti di analisi nati per scopi molto diversi, ossia non per “prevedere” il futuro (e quindi venderlo come probabile) quanto piuttosto per compiere esperimenti sugli effetti di policy diverse applicate su modelli di sviluppo diversi.
Il risultato? Del disastro imminente (e improbabile) se ne parla
molto, si fanno summit, si promettono mari e monti, ma, alla prova dei
fatti, nessuno fa un accidente e molti finiranno (giustamente!) per
smettere di crederci. E, se quello del clima è un tema serio, come lo è
sempre stato perché l’adattamento è comunque necessario, sarà meglio
affrontarlo seriamente, ad iniziare dalla pratica scientifica, per la
quale, come per tutte le altre cose, il fine non giustifica i mezzi.
NB: le informazioni (più molto altro) contenute in questo post vengono da recenti pubblicazioni di Roger Pielke Jr.
Fonte ClimateMonitor
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