Circa dieci anni fa cominciai ad interessarmi al cambiamento
climatico in corso. Fu un evento fortuito. In quel periodo fui
incuriosito dalle notizie relative al profondo minimo solare che
caratterizzò il passaggio tra il ciclo 23 e quello 24. Gironzolando in
rete, mi imbattei in siti come Climalteranti o Climatemonitor, in cui si
discuteva animatamente riguardo a tematiche di tipo climatologico e, da
allora, sono restato invischiato nel dibattito.
Prima di allora ero perfettamente al corrente del fatto che i
cambiamenti climatici rappresentano uno dei principali motori
dell’evoluzione della vita sulla Terra. L’estinzione dei dinosauri,
l’evoluzione dei mammiferi e degli esseri umani, in particolare, mi
avevano convinto che una delle principali cause dell’evoluzione sono i
cambiamenti climatici. Fui piuttosto sorpreso, quindi, quando scoprii
che esiste un gran numero di persone che è dell’avviso che il clima sia
sempre stato “normale” fino a che gli esseri umani non hanno cominciato
ad “alterarlo”. Qualcuno mi dirà che questa è una visione ingenua del
problema, in quanto nessuno nega che il clima sia cambiato in passato.
E’ vero, ma a sentire certi “sermoni” il dubbio viene!
Che poi il clima stia cambiando in un modo mai visto, si vede anche
lanciando un’occhiata distratta al famigerato diagramma di M. Mann, noto
come “hockey stick”.
diagramma di M. Mann, noto come “hockey stick” |
Secondo alcuni, in particolare, quello attuale è un cambiamento
climatico globale, mentre quelli verificatisi in passato (Periodo Caldo
Romano, Periodo Caldo Medievale e Piccola Era Glaciale) o non sono
proprio esistiti o hanno riguardato aree limitate del globo (l’emisfero
boreale, al massimo).
Analizzando diverse fonti, sembrerebbe che le cose stiano diversamente. In un articolo pubblicato recentemente su Nature Geoscience, Last phase of the Little Ice Age forced by volcanic eruptions, a
firma di S. Bronnimann e colleghi (da ora Bronnimann et al., 2019)
viene sostenuta l’ipotesi che una parte delle PEG (Piccola Era Glaciale o
LIA) non abbia rappresentato un fatto locale, ma globale. In questo
post voglio esporre alcune considerazioni relative all’articolo.
L’articolo in questione è molto breve ed è del tutto allineato alla
linea di pensiero principale circa la natura antropica del cambiamento
climatico odierno, ma, leggendolo attentamente, si scoprono alcuni
aspetti particolarmente interessanti.
Bronnimann et al., 2019 indaga la fase finale della PEG e, quindi, i
primi decenni del 19° secolo. La tesi degli autori è che cinque eruzioni
vulcaniche, verificatesi in quel periodo storico, ritardarono di oltre
un trentennio l’uscita dalla PEG e sottolineano la natura globale del
fenomeno. Gli autori fanno notare che non è ancora chiara la causa della
PEG: secondo alcuni essa fu conseguenza di eruzioni vulcaniche, secondo
altri alla variazione del flusso solare. I risultati dello studio di
cui ci stiamo occupando, avrebbero chiarito, invece, le cause del calo
termico verificatosi nella parte finale della PEG. Cerchiamo, però, di
esaminare con ordine le argomentazioni di Bronnimann e colleghi.
I ricercatori pensano di aver individuato cinque eruzioni vulcaniche
verificatesi in area tropicale tra il 1800 ed il 1830. Su tali eruzioni
esiste, però, un certo margine di incertezza: non tutti gli studiosi
sono d’accordo circa la loro reale esistenza ed intensità. Come inizio
non c’è male! Lo studio è basato su re-analisi di dati paleo-climatici
relativi a circa un secolo a cavallo del 1800 (1750-1850, per la
precisione). Le re-analisi effettuate, hanno consentito di accertare che
tra il 1750 ed il 1800 il clima terrestre era piuttosto caldo, ma dopo
il 1800 si verificò una sensibile diminuzione delle temperature globali:
circa 0,5°C. La causa di questo “picco freddo” andrebbe ricercata
nell’effetto schermante degli aerosol vulcanici sulla radiazione
solare. Gli effetti della forzante vulcanica si manifestano per due o
tre anni dopo l’evento eruttivo, ma le re-analisi eseguite su diversi
proxy, dimostrano la persistenza di questi effetti per periodi decadali o
multidecadali. Evidentemente gli oceani hanno modulato, con il rilascio
o l’acquisizione di calore, il fenomeno che, da meteorologico, è
diventato climatico.
Bronnimann et al., 2019 ha studiato quattro indicatori climatici: i
monsoni, la risposta oceanica, le variazioni delle masse glaciali
terrestri e lo spostamento verso sud delle correnti a getto tropicali.
Il tutto basandosi su serie termometriche (essenzialmente europee),
spessore degli anelli degli alberi, foraminiferi e via cantando.
Nella prima metà del 19° secolo il monsone fu caratterizzato da
notevoli variazioni che determinarono stagioni secche in tutta l’Africa
tropicale. Ciò è testimoniato dal flusso idrico del Nilo e dai livelli
dei lagni africani. I dati sono piuttosto discontinui, ma rappresentano
uno spaccato accettabile della situazione. Tali dati sono coerenti con i
risultati di due simulazioni modellistiche (modelli accoppiati FUPSOL
ed HadCM3) forzate con gli effetti di eruzioni vulcaniche verificatesi
in successione. Questo fatto farà storcere il naso a molti lettori di
CM, ma è ciò che è successo: i dati sintetici hanno avvalorato l’ipotesi
che nei primi anni del 19° secolo si siano verificate diverse ed
intense eruzioni vulcaniche in rapida successione.
Per quel che riguarda la risposta oceanica, le simulazioni effettuate
consentono di appurare che una sequenza di eruzioni è in grado di
determinare variazioni del contenuto di calore oceanico sia nello strato
più superficiale che in quello più profondo. La variazione del flusso
di radiazione in entrata nel sistema, determina un raffreddamento della
parte superiore dell’oceano per circa tre anni dall’eruzione. Il
rimescolamento oceanico genera, però, flussi di calore tra la parte
superficiale e quella profonda che sono in grado di prolungare gli
effetti del raffreddamento dello strato più superficiale. La variazione
del contenuto di calore oceanico, infine, è coerente con la riduzione
della tendenza all’aumento del livello del mare registrata dai
mareografi durante il periodo studiato. Gli autori, dimostrando una
grande onestà intellettuale, precisano che il segnale climatico della
forzatura vulcanica negli oceani ha la stessa struttura della
variabilità oceanica decadale e multidecadale (PDO), per cui la
forzatura esterna del sistema è difficilmente distinguibile dalla sua
variabilità interna. Personalmente considero questo aspetto della
questione estremamente importante. Gli aumenti della temperatura
globale, oggi come oggi, sono attribuiti esclusivamente alla forzante
antropogenica, ma la storia dimostra (e Bronnimann et al., 2019 ne è un
esempio) che la variabilità interna del sistema, può spiegare una parte
non piccola delle variazioni climatiche.
Nel corso della prima parte del 19° secolo si registrò un sensibile
aumento delle masse glaciali terrestri (certificato dai dati relativi ai
ghiacciai alpini) che ebbe il suo picco negli anni ’20 del secolo.
Questo aumento della massa glaciale è indice di estati più fredde di
quelle del periodo climatico precedente e, quindi, di una minore fusione
estiva. Ciò sembrerebbe coerente con uno spostamento verso sud del
flusso perturbato che determinò maggiori precipitazioni tanto nel
periodo estivo che in quello autunnale. La conseguenza di tutto questo,
fu un aumento del numero di eventi alluvionali estivi nelle aree
temperate rispetto al periodo precedente ed a quello successivo (un po’
come accade anche ai nostri giorni, per esempio).
E per finire Bronnimann et al., 2019, sulla scorta di una re-analisi
dei dati di pressione atmosferica e di alcune serie relative
all’ampiezza degli anelli degli alberi, sono in grado di ricostruire una
diminuzione di latitudine tanto del getto sub-tropicale che del ramo
discendente della cella di Hadley. Anche in questo caso gli autori
sottolineano che tali fenomeni potrebbero essere spiegati con la
variabilità interna del sistema legata all’Oscillazione Multidecadale
Atlantica (AMO).
Tutti questi indizi portano gli autori a dedurre che nella prima metà
del 19° secolo una serie di eruzioni vulcaniche determinò un picco
freddo che interessò l’intero globo e, quindi, rappresentò un fenomeno
climatico globale. Questa spiegazione è, però, alternativa ad altre che
coinvolgono la variabilità interna del sistema (AMO e PDO) e la
riduzione del flusso solare legato al concomitante minimo di Dalton. Il
riscaldamento conseguente alla fine del primo trentennio del 19° secolo
rappresenta, pertanto, un recupero dal picco freddo precedente, le cui
cause potrebbero essere state diverse, ma sicuramente non di origine
antropica.
I ragionamenti che ho qui cercato di riassumere, portano a due considerazioni che condivido con gli autori dell’articolo:
a) Non è possibile individuare un unico clima pre-industriale (prima del 1850) in quanto cause naturali determinarono una sensibile diminuzione della temperatura rispetto al periodo 1750-1800. Quando si parla, perciò, di temperature eccezionalmente alte rispetto all’epoca preindustriale sorge un dubbio. Stiamo considerando il periodo anteriore al 1750 o quello precedente il 1850?b) E’ molto difficile distinguere tra la variabilità forzata e quella naturale. Ciò vale per il passato e, secondo me, anche per il presente e per il futuro. In proposito ho potuto notare, però, che gli autori mi sembrano un poco incoerenti. Mentre per il periodo studiato, il clima può dipendere tanto dalle forzanti esterne che dalla variabilità interna, per quello successivo (a partire dal 1850) non c’è alternativa: esso varia solo ed esclusivamente a causa della forzante antropica esterna.
E per chiudere il discorso iniziato con questo post, mi sembra che
l’ipotesi della natura globale della PEG esca rafforzata da questo
studio, in quanto variazioni della temperatura dell’emisfero boreale,
determinano conseguenze in tutto il globo. Non tutti la pensano, però,
così e, a breve, ne avremo un esempio estremamente significativo (tempo
permettendo, ovviamente).
Fonte: Climate Monitor
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