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SUL CLIMA IMPAZZITO “ASCOLTATE GLI SCIENZIATI”. OK, MA QUALI?”
L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG)
Premetto
che, contrariamente alle mie abitudini, inserirò qualche considerazione
personale nell’analisi perché vorrei evitare le consuete polemiche
costruire ad arte per sviare l’attenzione dal merito degli argomenti che
propongo.
Quando si parla di clima ci sentiamo ripetere continuamente “ascoltate gli scienziati”.
Se
si parla dell’origine del cambiamento climatico ora sappiamo quasi
tutti che la stragrande maggioranza della comunità scientifica è
d’accordo sull’origine (prevalentemente) umana del fenomeno.
Ma
quando si parla delle strategie di mitigazione, quando si discute qual è
la terapia da applicare al nostro pianeta malato, sappiamo cosa dicono
gli scienziati?
Sicuramente
molti di noi pensano di saperlo: dobbiamo sostituire le auto a
combustione con le auto elettriche, le centrali termoelettriche con
impianti eolici o fotovoltaici, dobbiamo mangiare meno carne e consumare
meno materie prime, dobbiamo rinunciare a tanti piccoli vizi e a
qualche comodità per il bene del pianeta.
In
realtà, questa è in estrema sintesi la ricetta di una ristretta cerchia
di scienziati e attivisti che, grazie a una retorica apocalittica e a
una notevole sovraesposizione mediatica, si è accaparrata il privilegio
di parlare a nome della Scienza.
Il
cuore pulsante di questa ideologia si nasconde nei meandri di
un’organizzazione internazionale che sentiamo nominare continuamente: l’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico).
L’IPCC è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici.
Si tratta di un foro scientifico unico nel suo genere: non svolge attività di ricerca indipendente ma fa semplicemente la revisione di tutta la letteratura scientifica che abbia una qualsiasi attinenza con il cambiamento climatico. In poche parole, l’IPCC dovrebbe spiegare ai politici di tutto il mondo cosa dice la Scienza sul cambiamento climatico e sulle possibili contromisure a nostra disposizione.
In realtà fa molto di più: promuove un’agenda politica che spazia dalle relazioni internazionali ai diritti di genere.
La struttura operativa dell’IPCC si articola in gruppi di lavoro e una Task Force.
Il
primo gruppo di lavoro (WGI) è dedicato all’analisi del cambiamento
climatico e della sua evoluzione, il secondo gruppo di lavoro (WGII)
allo studio dell’interazione tra il cambiamento climatico, l’ecosistema e
l’uomo, il terzo (WGIII) elabora le strategie di contrasto e la Task
Force ha il compito di calcolare le emissioni di ciascuno Stato membro.
Ogni
gruppo di lavoro è formato da una decina esperti ed è affiancato da
un’unità tecnica (TSU) di dimensioni variabili. I componenti del gruppo
di lavoro e dell’unità tecnica sono eletti nelle riunioni plenarie
dell’organizzazione, a cui partecipano i delegati degli Stati membri e
quelli degli osservatori istituzionali (agenzie ONU, organizzazioni
internazionali e non governative).
La struttura dell’IPCC
Dando un’occhiata da vicino al terzo gruppo di lavoro, quello che elabora la strategia di contrasto al cambiamento climatico, ci si accorge subito di una incongruenza: il gruppo di lavoro è composto in maggioranza da scienziati naturalisti mentre l’unità tecnica è formata esclusivamente da esperti ambientali. |
Qual è il problema? Che i primi due gruppi di lavoro, quelli incaricati di studiare l’atmosfera e la biosfera, siano formati in prevalenza da fisici e biologi è fisiologico. Ma che anche il terzo gruppo di lavoro, in cui si dovrebbe parlare soprattutto di soldi, politica e tecnologia, sia composto in maggioranza da scienziati naturalisti è un evidente cortocircuito. Di natura ideologica. |
Consegnare
le chiavi della strategia di mitigazione a ricercatori esperti di clima
e ambiente, infatti, vuol dire adottare la prospettiva di chi vede il
bicchiere mezzo vuoto, quindi quello che abbiamo distrutto, invece che
il bicchiere mezzo pieno, quindi quello che abbiamo creato.
Sin dagli albori, infatti, l’ecologia è “una scienza sovversiva” che si contrappone alla
modernità e alla civiltà industriale. E, da sempre, gli scienziati
naturalisti sono i principali ispiratori di questa rivoluzione
culturale. In fondo, è anche una questione antropologica:
da chi vi aspettereste una critica strutturata alla civiltà delle macchine, da un biologo che lavora nella foresta amazzonica o da un ingegnere informatico che lavora nella Silicon Valley?
Oltretutto,
cerchiamo di non dimenticare che l’IPCC ha vinto il Nobel per la Pace
nel 2007 in coppia con Al Gore, cioè con il principale esponente dei
verdi americani (Green Democrats). Quella green non è mai stata una
teoria scientifica quanto piuttosto una visione del mondo. Che ora
qualcuno sta cercando di imporre a tutta l’umanità.
Questa insana commistione tra Scienza e politica crea, però, delle preoccupanti distorsioni nelle attuali strategie di contrasto al cambiamento climatico.
Facciamo un esempio: le Negative Emission Techonologies (NETs)
sono quelle soluzioni che permettono di ridurre il livello di anidride
carbonica in atmosfera. Nei modelli dell’IPCC le NETs hanno un ruolo
marginale nella lotta al cambiamento climatico, e solo a partire dalla
metà del secolo.
Nel 2019 l’Accademia delle Scienze americana (NASEM) pubblica un rapporto di
500 pagine in cui approfondisce il tema delle emissioni negative. Alla
stesura del rapporto partecipano 8 diversi dipartimenti di ricerca, per
un totale di 80 esperti specializzati nelle materie più disparate.
Il frontespizio del rapporto dell’Accademia delle Scienze USA con l’elenco dei dipartimenti che hanno collaborato allo studio. |
E, guarda caso, la NASEM giunge a conclusioni diametralmente opposte all’IPCC:
catturare l’anidride carbonica direttamente in atmosfera costa 100
dollari la tonnellata, non 1.000 come sostiene l’IPCC, ed è un’opzione
da sviluppare il prima possibile, non tra 30 anni.
Pochi mesi prima la Royal Society, l’Accademia delle Scienze britannica, era giunta a risultati analoghi,
stimando un costo di cattura di 50 dollari la tonnellata e abbozzando
programmi di cattura da centinaia di miliardi di tonnellate.
Addirittura, l’Accademia britannica prevede che entro la fine del secolo
la cattura diretta sarà un business da 10.000 miliardi di dollari
l’anno (più del fatturato dell’Oil&Gas oggi). Pochi mesi dopo,
l’Accademia delle Scienze europea (EASAC) si è allineata su posizioni simili, adottando come riferimenti le stime della NASEM e della Royal Society.
Dietro questa spaccatura c’è molto più che una divergenza sui dati.I ricercatori dell’IPCC, infatti, si sono convinti che la cattura diretta comporti “un azzardo morale:
se la società inizia a pensare che la cattura diretta (geoingegneria)
risolverà il problema del cambiamento climatico, potrebbe dedicare meno
attenzione alle strategie di mitigazione”.
Un altro esempio: a dicembre del 2015 James Hansen e altri tre eminenti climatologi lanciano sul Guardian un appello a favore dell’energia nucleare.
Tanto
per essere chiari: Hansen è considerato il padre delle scienze del
clima, è stato per 30 anni Direttore del Goddard Institute for Space
Studies alla NASA, le sue ricerche hanno formato almeno due generazioni
di fisici dell’atmosfera, ha denunciato pubblicamente le pressioni
dell’Amministrazione Bush per sminuire le evidenze scientifiche del cambiamento climatico e ha polemizzato con l’Amministrazione Obama per l’approccio troppo timido, a suo dire, nella decarbonizzazione dell’economia americana. Uno tutto d’un pezzo, insomma.
Ma con chi ce l’ha Hansen quando parla di strategie di mitigazione basate sul pregiudizio?
A metterlo in chiaro ci pensa Michael Shellenberger,
con cui Hansen ha provato a rilanciare il tema durante la conferenza
del clima di 3 anni fa (COP23): “Gli autori dell’IPCC usano comparazioni
dei costi parziali e ingannevoli per mettere in buona luce l’energia
solare e in cattiva luce l’energia nucleare” [1]. (N.d.R: incomprensibile e preoccupante il greening del nucleare)
Ancora
una volta una contestazione sui dati che, per definizione, dovrebbero
essere incontrovertibili. E, anche in questo caso, quelle di Hansen e di
Shellenberger non sono voci fuori dal coro, anzi.
L’Agenzia
Internazionale per l’Energia Atomica, un’altra agenzia specializzata
dell’ONU, anch’essa insignita del Premio Nobel per la Pace proprio due
anni prima dell’IPCC (2005), promuove lo sviluppo dell’energia nucleare
come strumento di contrasto del cambiamento climatico, rimarcando che
già oggi grazie all’energia nucleare evitiamo di emettere 2 miliardi di
tonnellate di anidride carbonica in più l’anno, equivalenti all’impatto
di 400 milioni di automobili.
La NASA dal canto suo sottolinea che
negli ultimi 40 anni l’energia nucleare ha salvato la vita a quasi 2
milioni di persone, altrimenti morte a causa dell’inquinamento.
Fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità |
Al
contrario, l’IPCC preferisce focalizzarsi sui rischi legati alla
sicurezza degli impianti, allo smaltimento delle scorie e, soprattutto,
alla proliferazione delle armi nucleari. Temi che, per quanto validi,
non c’entrano assolutamente nulla con il clima e che andrebbero lasciati
al giudizio dei Parlamenti nazionali e delle organizzazioni competenti.
Qui
inserisco la mia prima considerazione: personalmente penso che, se ci
si può permettere energia pulita e sicura, sia saggio concedersi questo
lusso. Ma credo anche che l’opinione pubblica non vada trattata come un
bambino: le cose vanno spiegate chiaramente.
Questi
due esempi non sono altro che la punta dell’iceberg. I punti
controversi della strategia di contrasto al cambiamento climatico
dell’IPCC sono decine e vanno ben oltre le dispute sui costi. Troppo
spesso l’IPCC è una voce isolata nella comunità scientifica.
Un
ultimo esempio, sempre dalla lettera di Hansen al Guardian: “lo
scenario 100% rinnovabili si basa su premesse tecniche irrealistiche”.
Il
sole adesso c’è, tra un’ora chissà. E il vento ugualmente. I consumi,
invece, hanno bisogno di un flusso di energia programmabile. Fino a che
l’energia eolica e solare copre solo una parte del fabbisogno energetico
tutto va bene: quando la domanda supera l’offerta accendiamo una
centrale a gas (peak plant) e in 180 secondi il problema è risolto.
Ma
in un sistema 100% rinnovabili se non c’è sole o non c’è vento come si
risolve il problema? Teoricamente ci dovrebbero pensare delle enormi
batterie, in realtà questa tecnologia attualmente non esiste. I modelli
dell’IPCC, però, danno per scontato che tra dieci anni esisterà e sarà
già in commercio a prezzi competitivi. Questa non è un’enorme incognita?
Giudicate voi.
Una seconda, breve, riflessione: personalmente non ho nulla contro il solare o l’eolico, due fonti di energia che saranno sicuramente protagoniste nel prossimo futuro. Ma trovo pericolosa l’illusione che si sta coltivando nell’opinione pubblica e cioè che siano una strada sicura per la decarbonizzazione. Come tutte le altre soluzioni, infatti, presentano rischi e incognite. E, anche in questo caso, andrebbe detto chiaramente.
Fonte:PLOS ONE
|
Ricapitolando:
nei modelli dell’IPCC l’energia nucleare è osteggiata nonostante sia
un’abbondante fonte di energia pulita che comporta rischi inferiori alle
fonti di energia sporca che utilizziamo adesso e le tecnologie che ci
permetterebbero di invertire il cambiamento climatico sono snobbate
perché non combaciano con l’idea di progresso dell’intellighenzia
ambientalista. In compenso, l’IPCC include nella
sua strategia la parità di genere perché nei Paesi in via di sviluppo
contribuirebbe indirettamente a un impercettibile rallentamento del
ritmo a cui crescono le emissioni (p. 37). È chiaro che si tratta di politica e non di Scienza.
Fonte: The Lancet |
Un’ultima
considerazione personale: sono un convinto sostenitore della parità di
genere ma trovo che sia una battaglia socioculturale, non climatica.
Temo che questi sotterfugi contribuiscano solo ad incrinare
ulteriormente la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti
dell’imparzialità della comunità scientifica.
Ma
perché denunciare queste contraddizioni, alla fine cosa c’è di
sbagliato nel promuovere la parità tra uomo e donna o nel mettere in
guardia l’opinione pubblica dal rischio di proliferazione delle armi
nucleari?
Il problema è che ogni volta che le conferenze sul clima si chiudono con un clamoroso insuccesso a
pagare il conto non sono i climatologi. A pagare il conto sono milioni
di poveracci per cui la lotta al cambiamento climatico e
all’inquinamento è una questione di sopravvivenza e, come tale, viene
prima dei modelli di consumo sostenibili, della difesa della
biodiversità e persino dei diritti di genere.
Gli
alfieri della rivoluzione verde rifiutano di accettare che chiunque
complichi la soluzione della crisi climatica aggiungendo paletti, seppur
in buona fede come sicuramente sono gran parte degli scienziati e degli
attivisti green, si assumono una terribile responsabilità: far
soffrire, condannare a morte, chi poteva essere salvato da una reazione
più pragmatica e quindi più tempestiva.
Oramai
stiamo facendo una corsa contro il tempo, la priorità è arrivare al
traguardo prima possibile. Milioni di persone già soffrono e già muoiono
oggi per le conseguenze del cambiamento climatico e dell’inquinamento. Non ci possiamo concedere il lusso di perdere tempo a cercare la soluzione perfetta, abbiamo bisogno di fare presto.
Quando
ci scagliamo contro i politici, colpevoli secondo alcuni di non fare
nulla per combattere il cambiamento climatico, cerchiamo di ricordare
che negli ultimi 10 anni gli investimenti in energia rinnovabile sono
stati pari a 2.600 miliardidi dollari, sostenuti in gran parte da programmi di incentivazione pubblica. Se avessimo dirottato solo il 10% di
questa montagna di denaro verso programmi di afforestamento oggi
avremmo un asset in più per rallentare gli effetti del cambiamento
climatico.
Evidentemente c’è stato più di un errore di valutazione.
I
governi fanno quello che possono, convincere l’opinione pubblica della
necessità di nuove tasse non è facile. Per questo è di fondamentale
importanza mettere a disposizione degli Stati un ventaglio di opzioni
più ampio possibile: ciascun Paese deve trovare la propria via per la
decarbonizzazione, quella che gli costa meno e gli assicura il
rendimento socioeconomico maggiore (posti di lavoro, investimenti,
qualità della vita, innovazione, sicurezza etc).
L’alternativa è il modello Macron:
un politico “illuminato” che mette in pratica i precetti dell’IPCC, si
ritrova in breve tempo il Paese in rivolta ed è costretto a tornare sui
suoi passi, avendo ottenuto come unico risultato il consolidamento
dell’ostilità popolare nei confronti delle politiche ambientali.
Dopo quasi 30 anni di fallimenti, forse sarebbe il caso di farsi una domanda: le strategie di mitigazione su cui ci siamo incaponiti sono realistiche o stiamo perdendo tempo (che non abbiamo) inseguendo una chimera?
Non
abbiamo il dovere di lasciare in eredità alle generazioni future un
mondo perfetto, basta che sia migliore di quello che abbiamo ricevuto in
eredità noi. La povertà, l’ingiustizia sociale, le discriminazioni di
genere ci sopravviveranno? Probabilmente sì, come sono sopravvissute a
tutte le generazioni che prima di noi hanno lottato per ridurle.
Intanto, però, cerchiamo di mettere in sicurezza il pianeta.
L’analisi
è interessante, ma non tiene conto di alcune principali cause dei più
gravi problemi attuali, ignorati del resto anche dall’ IPCC:
1. Meteo e clima sono manipolati da decenni.2. Operazioni militari (guerre, test, basi) sono la causa principale della devastazione del pianeta.3. Il nucleare ha un ruolo cruciale nella distruzione della biosfera.
Nucleare militare e civile: i fratelli inseparabili
LA TECNOLOGIA NUCLEARE, MILITARE E CIVILE, È UNA RICETTA PER IL DISASTRO: BISOGNA CHIUDERE
COSA È PIÙ PERICOLOSO, LA CO2 O Il NUCLEARE?
IL CLIMA E LA PISTA DEI SOLDI
Fonte NoGeoingegneria
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